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«Vogliamo vedervi piangere»: la prima intervista dei Dream Theater dopo il ritorno di Mike Portnoy

Il batterista è tornato a far musica con i mostri del prog metal in tour (a ottobre in Italia) e in sala d’incisione, per il nuovo album. I cinque spiegano tutto qui. «Non vogliamo fare come Roger Waters coi Pink Floyd»

Foto press

Mike Portnoy non ricorda quand’è stata l’ultima volta che ha parlato con la stampa da membro dei Dream Theater. E nessuno di questi cinque mostri del prog metal ricorda l’ultima volta in cui hanno fatto un’intervista tutti assieme. Il batterista che ha lasciato la band nel 2010 è rientrato l’anno scorso e si capisce che non vede l’ora di parlare mentre s’accomoda tra il chitarrista John Petrucci e il cantante James LaBrie nella sala prove/quartier generale del gruppo a Long Island, New York.

«Per un po’ non abbiamo fatto interviste di gruppo», dice Petrucci. «Più voci ci sono», aggiunge LaBrie, «più la cosa può essere problematica». Si alza e fa finta di andarsene: «Ci si vede!». Evidentemente dopo il ritorno di Portnoy l’umore è buono.

Arrivano il tastierista Jordan Rudess e il bassista John Myung. Buona parte dello spazio dello studio appena ristrutturato dove la band sta scrivendo il sedicesimo album è occupato dalla batteria di Portnoy. Si sta talmente stretti che Petrucci, che è anche produttore del disco, chiede a Myung di stare attento a come si muove, visto che è vicino a un microfono piuttosto costoso.

E insomma, che cosa stanno facendo in questo momento i Dream Theater? «Questa cosa qua», risponde Petrucci prima di mettersi a suonare un riff di chitarra. Oltre all’album, i cinque stanno mettendo a punto il tour per il 40° anniversario della band (anche se nel 2024 cade il 39° anniversario). Partirà dall’Europa a ottobre e toccherà l’Italia il 25 al Forum di Assago, Milano e il 26 al Palazzo dello Sport di Roma. È una sorta di giro d’onore con un anno di anticipo.

Portnoy ha fondato il gruppo con Petrucci e Myung al Berklee College of Music nel 1985. Una decina d’anni fa, l’idea di una reunion con lui sembrava impensabile. Dopo aver detto ai compagni di band nel 2010 che si sentiva esaurito, ha fatto un disco come batterista degli Avenged Sevenfold e ha annunciato che avrebbe lasciato i Dream Theater. Da allora, si è seduto dietro i tamburi di diverse formazioni (tra cui Winery Dogs, Adrenaline Mob e Neal Morse Band) e a volte si è scontrato con gli ex compagni via stampa. I Dream Theater sono andati avanti col batterista Mike Mangini e hanno portato a casa pure un Grammy. Ma i legami familiari (compreso il fatto che le mogli di Petrucci, Myung e Portnoy suonano tutte insieme nelle Meanstreak) hanno riportato a casa Portnoy. Il ritorno è stato annunciato a ottobre.

Per ospitare Portnoy e il suo kit grande come un appartamento hanno dovuto ampliare lo studio principale del loro quartier generale, un magazzino anonimo alla periferia di Long Island. Da quasi due mesi passano qua dentro sei giorni alla settimana, a volte lavorando per 10 ore al giorno. «Siamo nel pieno del processo ed è fantastico», dice Portnoy.

«Siamo alla sesta canzone», spiega Petrucci. «Ci stiamo ancora lavorando, quindi non sappiamo quanti brani avremo alla fine». Circa una settimana dopo l’intervista, Portnoy ha scritto su Instagram che ha finito di registrare le tracce di batteria per l’album. Tutti e cinque i musicisti dicono che il suo ritorno era in qualche modo scritto nel destino.

Qual è stato il primo pezzo che avete suonato dopo il ritorno di Mike?
Mike Portnoy: Abbiamo iniziato suonando per 20, 30 minuti quel che ci veniva. Le vecchie canzoni non le abbiamo ancora fatte. Siamo arrivati qui con lo scopo di creare una nuova magia e, senza nemmeno parlarne, abbiamo iniziato a jammare.
James LaBrie: C’era fiducia, c’era intesa. È stato come fare un viaggio nel passato, è come se avessimo ripreso da dove avevamo lasciato.

Perché voi quattro avete voluto che Mike tornasse?
LaBrie: Per tornare alla nostra forma migliore.
Petrucci: Non c’è stato un solo motivo. Una serie di cose della vita ci hanno portati a farlo. Ne abbiamo parlato e abbiamo capito che aveva senso.
Jordan Rudess: Ci sono tanti fattori in gioco, ma c’è stato un momento in cui tutto sembrava convergere. Era il momento giusto per farlo.
John Myung: È stato un momento di intesa collettiva.
Petrucci: Sembra il titolo di un album (risate).

E a te, Mike, ha sorpreso l’invito a rientrare?
Portnoy: Se mi aveste chiesto di una reunion prima della pandemia, avrei detto che dubitavo potesse accadesse. Se non ci fosse stato il lockdown, loro sarebbero stati in tour e io in giro con una delle mie 48 band. Poi quando eravamo tutti chiusi in casa, John mi ha chiesto di suonare nel suo disco da solista. Poi Jordan, John e io abbiamo fatto l’album dei Liquid Tension Experiment e ho suonato nel tour di John. Tutta questa serie di eventi ci hanno fatti riavvicinare, non solo a livello musicale ma anche personale. Le nostre famiglie si conoscono bene. Mia figlia e quella di John sono state coinquiline per anni. John Myung abita proprio in fondo al mio isolato e sua moglie viene da noi ogni sera. Ci sono stati degli avvenimenti, sia sul piano umano che musicale, che hanno iniziato a farci pensare: forse è il momento giusto.

Vedete questa reunion come la ricomposizione di una band che si era frammentata?
Portnoy: Non voglio filosofeggiare, ma stiamo invecchiando. Abbiamo tra i 50 e i 60 anni. Si comincia a pensare seriamente a quanto tempo ci resta. Non vorrei che si creasse una situazione tipo Roger Waters coi Pink Floyd o Peter Gabriel coi Genesis, per cui i fan lo vogliono, ma non succede mai.
Petrucci: Quando Mike ci ha lasciati è stato un trauma. Dovevamo capire come mandare avanti la carriera. E gli anni trascorsi ci hanno aiutati a guarire da quel trauma, perché dopo una cosa del genere non è che all’improvviso, una settimana dopo, si torna tutti amiconi. C’è stato un trauma che ha dovuto guarire. Tredici anni sono stati sufficienti affinché si potesse dire: «Sai una cosa, amico? Ci vogliamo bene come fratelli».

Come avete superato le vecchie scaramucce a mezzo stampa?
Petrucci: Non credo che quella roba abbia più importanza.
Portnoy: Be’, ora sicuramente è così, ma i primi due anni sono stati drammatici a livello personale. Vivere nell’era dei social media non ha aiutato, perché ogni singola intervista o commento veniva distorto e gonfiato, sezionato e decontestualizzato. Quando però ho incontrato i ragazzi individualmente, prima di tornare come band, tutte le stronzate e i drammi si sono dissolti. (Si rivolge a LaBrie) Non so se è inopportuno parlarne, ma l’ultima persona con cui ho riallacciato i rapporti è stato James. Parlo per me, ma quando finalmente ci siamo incontrati e ci siamo visti di persona, tutta quella merda è svanita in un attimo.

Com’è stato per te, James?
LaBrie: Emozionante e travolgente. Ero concentrato sul concerto di quella sera, al Beacon di New York, e c’era questo ragazzo che voleva vedermi, un fratello che dovevo riaccogliere nella mia vita. È stato toccante per via di tutto quello che avevamo passato.

Avevi dubbi sul fatto di rivederlo?
LaBrie: A dirla tutta, ho telefonato a mia moglie, le ho spiegato che c’era Mike e che voleva vedermi. E lei: «Devi farlo, è come un fratello per te, ha contribuito a creare quel che sei oggi. Affronta la situazione e sarai più felice. Togliti questa cazzo di scimmia dalla schiena». Mike ed io siamo persone molto emotive e passionali. E credo che questa sia la ragione per cui non ci eravamo reincontrati fino a quel momento. Ma appena l’ho visto, come ha raccontato lui, sono uscito dal camerino, l’ho guardato e gli ho detto «vieni qui» e gli ho dato un cazzo di abbraccio. Ecco fatto (entrambi dicono «ohhhh» e si abbracciano di nuovo). Grazie a Dio è successo.

Mike, lo show al Beacon era il primo in cui vedevi i Dream Theater senza di te. Che te ne è parso?
Portnoy: Che senza di me facevano schifo. (Risate) Non ero lì per giudicare, è stata una esperienza più emotiva. È stato surreale vedere la band, visto che noi tre l’abbiamo fondata al Berklee quando avevamo 18 anni e abbiamo trascorso un quarto di secolo assieme. Quindi è stato strano trovarmi dall’altra parte a sentire Pull Me Under e, soprattutto, la cosa è stata amplificata dai fan. Mi hanno visto lì, seduto, a guardare la band. Cercavo di non attirare l’attenzione, ma non era facile con la barba blu che spuntava dal cappuccio.
LaBrie: E io l’ho fatto notare.
Portnoy: Sì, James mi ha indicato e io ho pensato: grazie tante, amico.

Come ti ha fatto sentire assistere al concerto?
Portnoy: Mentirei se non dicessi che mi ha fatto sentire la mancanza della band. Per 13 anni me ne sono stato in disparte, tenendoli d’occhio, ma solo un po’. Ho evitato di informarmi troppo su quel che facevano perché, onestamente, faceva male. Quando usciva un nuovo album, lo ascoltavo una o due volte per curiosità, ma era una sofferenza. Mi ci sono voluti anni, molti anni per riuscire ad andare a un concerto dei Dream Theater.

E Mike Mangini come ha accolto la notizia?
Petrucci: Ha capito al volo stava succedendo. L’ha accettato e ha accolto il cambiamento in modo signorile.
LaBrie: Gli è parsa una cosa giusta.
Petrucci: Ha fatto sì che l’intero processo iniziasse con una nota positiva.

Mike, ci sono pezzi degli album con Mangini che ti piacerebbe suonare dal vivo?
Petrucci: Credo non ne conosca manco uno (ridono tutti).
Portnoy: Una delle cose di cui abbiamo parlato, al mio ritorno, è stata la scaletta dei futuri concerti. John e i ragazzi erano aperti al fatto che io riprendessi le redini (della stesura delle scalette, nda). Ma poi è nato il problema: che fare con tutto il materiale degli ultimi 13 anni?
Petrucci: Ti tocca studiare.
Portnoy: Devo farmi una full immersion in quegli album e imparare le canzoni, perché ovviamente ogni epoca deve essere rappresentata. Non voglio parlare a nome dei ragazzi, ma non credo che desiderino che quei cinque album vengano cancellati dalla storia della band.
Petrucci: Assolutamente no. Soprattutto non il pezzo che ha vinto il Grammy (ovvero The Alien, nda). O mio Dio, l’ho detto davvero?
Portnoy: Ops…
LaBrie: La cosa ironica è che quello che non la vuole fare sono io.

I Dream Theater nel 2018 con Mike Mangini (il primo a destra)

In passato, avete fatto un tour intitolato An Evening with Dream Theater in cui non avevate artisti di supporto e suonavate più a lungo. È così che sarà il prossimo?
Petrucci: Sì, lo stiamo lanciando come il tour per il nostro 40° anniversario. Coincide con il fatto che siamo insieme da 40 anni.
Myung: Mi è venuta un’idea (tutti lo guardano). Faremo cinque serate al Radio City e stasera incideremo un disco diverso.
Petrucci: Hai lo scoop (ride).

Ok, so che potrebbe non accadere, ma è bello che pensiate a queste cose.
Portnoy: Per me è emozionante suonare qualsiasi cosa, perché sono quasi 15 anni che non lo faccio con loro. All’epoca, sentivo il bisogno di creare una scaletta diversa per ogni concerto, perché eravamo in giro da tanti anni. Avevamo fatto Pull Me Under migliaia di volte. Ma ora, dopo tanto tempo, proporla ogni sera sarà eccitante, almeno per me che non l’ho suonata per tutto questo tempo. E c’è una generazione di ragazzi che non ha mai visto questa formazione.
Petrucci: È successo anche a me durante il tour solista. C’erano persone che portavano i figli e andavano fuori di testa: «Bello che mio figlio abbia potuto vedere te e Mike suonare assieme perché non era ancora nato quando lo facevate».
LaBrie: La cosa divertente è che quando vi ho visti a Toronto ho pensato: cazzo, è palese. C’era un’intesa pazzesca.
Portnoy: Durante il tour di John, guardavamo di sotto e vedevamo adulti piangere, ogni sera. E ora vogliamo vedere molta gente in più che piange. Se piangevano solo per noi due, pensa a cosa succederà quando saremo in cinque…
Myung: Dovremmo cominciare a vendere fazzoletti.

Che differenza c’è nella band ora che Mike è tornato? Lui è cambiato? Siete cambiati tutti?
Portnoy: Sono cambiato molto da quando me ne sono andato nel 2010. All’epoca ero un maniaco del controllo. Ero ossessivo, volevo controllare un sacco di cose. Ma quel che ho fatto negli ultimi 13 anni fuori dai Dream Theater mi ha insegnato a far gioco di squadra. Ho suonato con altri 87 gruppi e ognuno aveva una intesa diversa, dinamiche diverse, personalità diverse. Mi ha aiutato a crescere come persona. È tutto un processo di apprendimento, anche adesso, in questa nuova situazione. È come se, 40 anni dopo, fossi il nuovo arrivato.
Petrucci: Abbiamo affrontato una conversazione difficile, tipo: ok, questa non è la stessa band che hai lasciato, le cose sono gestite in modo diverso. Ci sono voluti anni per riorganizzarci, ora siamo arrivati a un punto in cui siamo una macchina ben oliata. Ma Mike è stato fantastico. È molto più tranquillo. (Si rivolge a Portnoy) Dici anche cose curiose, tipo: «Se mi è permesso di farlo…». Non c’è bisogno di essere così cauto, ma lo apprezzo. Mi sembra che sia molto rispettoso, da parte sua. È come avere fatto un reset.
Myung: Siamo tutti maturati. Si tratta di avere più pazienza, essere più calmi e apprezzare gli altri e il contributo che danno. Parliamo di continuo della dinamica di gruppo e di ciò che è necessario per far funzionare la band. Ci sono tutte le condizioni per fare un grande album, divertirci, entrare nella prossima fase.

C’è qualcosa di diverso dal punto di vista musicale?
Portnoy: Tutto ciò che abbiamo scritto suona come qualunque canzone o album classico dei Dream Theater. Lo stile è quello, l’intesa è la stessa, così come le persone. Tutto suona molto familiare.
Petrucci: C’è maturità nel tuo modo di suonare, nel tocco, nel flow, nel groove, nel feeling. È sempre stato fantastico, ma ora è ancora meglio. Quando incidiamo una nuova traccia di batteria, è brillante fin dal primo colpo.
Portnoy: Beh, grazie.
Rudess: Credo che una delle cose che rende i Dream Theater molto amati dai fan sia che cerchiamo di essere sinceri e amiamo le belle melodie. Non abbiamo paura di suonare musica che fa emozionare. E il ritorno di Mike nella band, grazie al suo status e alla persona che è ora, ci dà una marcia in più.

Come capirete quando l’album sarà terminato?
Petrucci: Contano diversi fattori. Spesso ci basiamo su quanto vogliamo che duri.
Portnoy: Anche se abbiamo una tabella di marcia molto rilassata, che gestiamo noi, abbiamo un tour a ottobre. Se iniziamo i concerti il 20 ottobre, dobbiamo essere in sala prove entro l’ultima settimana di settembre, il che significa che l’album deve essere mixato e masterizzato e consegnato entro una certa data. Per fortuna non siamo in balia di uno studio che ci butta fuori o di un’etichetta che stacca la spina.

Siete pronti per il tour?
Portnoy: Ci aspettiamo che il primo concerto sia emozionante non solo per noi cinque, ma anche per il pubblico. Ho la sensazione che arriverà gente da tutto il mondo per quel primo show. Un po’ spaventa perché in circostanze normali ci vogliono un po’ di concerti per riprendere la mano. In questo caso, dobbiamo partire al massimo. Siamo nell’era di YouTube, passeranno al microscopio il primo show. Non possiamo far schifo. La pressione è tanta.

Da Rolling Stone US.

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