La definizione one girl band sembra essere stata coniata apposta per Voodoo Kid, anche se in versione 2.0. Questa venticinquenne della provincia di Brescia, infatti, scrive, produce, suona e canta tutte le sue canzoni. «Lavoro personalmente anche su tutti i contenuti relativi alla promozione della mia musica», racconta, collegata via Zoom dal loft milanese che lei e la sua squadra usano come quartier generale. «Voglio che la gente sia in grado di capirla il meglio possibile. Soprattutto in un periodo in cui non si può suonare dal vivo, credo sia fondamentale».
Quello di Marianna – questo il suo vero nome – non è l’approccio DIY che hanno molti suoi coetanei. Ha frequentato per anni la University of Westminster di Londra, dove si è laureata in Commercial and Popular Music Performance. E in effetti il suo sound è molto British: un sofisticato amalgama di pop ed elettronica, dalle atmosfere rarefatte e delicate, ma allo stesso tempo ricchissime di riferimenti ad altri artisti e tradizioni. Dopo i primi brani in inglese e le prime collaborazioni importanti (ad esempio quella con Mecna, che l’ha voluta accanto a sé insieme ad Ainé, agli Psicologi e a Marïna per la title track del suo album con Sick Luke, Neverland), oggi debutta finalmente con il suo primo lavoro solista, dal titolo Amor, Requiem.
Scritto interamente in italiano e confezionato come un gioiellino da poche tracce ma molto incisive, potrebbe rappresentare una svolta nel panorama nazionale: raramente, infatti, un prodotto nostrano pensato per il mercato mainstream ha avuto le potenzialità per piacere anche a un pubblico più colto e raffinato. Che sia la volta buona?
Come mai hai deciso di andare a studiare nel Regno Unito?
Per mancanza di opzioni: in Italia non esiste nulla di paragonabile all’università che ho fatto. Qui gli studi musicali hanno un approccio molto teorico, ma io sono dislessica e faccio fatica a suonare a vista uno spartito, mi trovo meglio a mettere le mani sugli strumenti e imparare concretamente. Fin da quando ho cominciato a suonare ho preferito concentrarmi sulla pratica, come fanno all’estero. Così ho fatto domanda a diverse università straniere, tra cui il Berklee College of Music di Boston (l’università musicale più prestigiosa del mondo, frequentata anche da Imagine Dragons, John Mayer, Empress Of, St. Vincent, Esperanza Spalding e molti altri, ndr), ma la notizia che mi avevano ammesso anche lì mi è arrivata quando vivevo e studiavo già a Londra, e siccome mi trovavo molto bene, ho deciso di fermarmi lì.
Se dovessi riassumere ciò che effettivamente suoni…?
Beh, praticamente tutto ciò che mi passa per le mani, anche strumenti che non conosco (ride). Ho iniziato con la chitarra, poi sono passata a pianoforte e canto, poi ho sperimentato da autodidatta con il basso e la batteria. All’università, poi, avevamo a disposizione sintetizzatori di ogni tipo, dai Moog ai Korg fino ai Prophet, e ovviamente ho iniziato a spippolare anche su quelli. In particolare mi sono innamorata del Nord Lead 4, che tuttora uso in quasi tutte le mie produzioni. Negli anni, poi, ho imparato a usare anche software come Logic per essere più autonoma.
La scena musicale di Londra è lontana anni luce da quella italiana, anche come approccio agli ascolti…
Assolutamente. È normale uscire con gli amici per andare in un locale in cui non sai neanche chi suonerà: in questo modo mi sono imbattuta in un sacco di gruppi e musicisti pazzeschi. Adoravo fare serata al Coco Camden, in zona Brixton, dove si alternavano sul palco degli illustri sconosciuti che spesso si rivelavano bravissimi. Qui da noi manca totalmente quell’abitudine all’ascolto e alla scoperta.
La domanda, quindi, sorge spontanea: considerando anche le tue sonorità molto poco nazionalpopolari e la vivacità della scena locale, come mai non sei rimasta in Inghilterra?
Rispondo sempre con una battuta, ovvero che la musica italiana aveva bisogno di me (ride). In realtà, però, mi mancava molto casa: l’ultimo anno che ho trascorso a Londra l’ho vissuto abbastanza in down, anzi, in depressione, per essere più precisi. Prima ancora di partire ho fatto una lunga chiacchierata con i miei genitori ed ero molto in dubbio su quello che volevo fare: continuava a piacermi molto studiare e amavo ciò che facevo, ma non ho vissuto molto bene la situazione. Volevo solo tornare, staccare un po’ la spina e fare un piccolo reset mentale. E poi cominciare a muovere i primi passi con la mia musica.
Ti sei sentita capita dalla discografia italiana, quando hai provato a proporre qui il tuo sound?
All’estero non c’è bisogno di corrispondere a un genere specifico per essere un personaggio commercializzabile, per così dire, e questo mi aiutava molto, perché io amo sperimentare e non mi rispecchio in un solo tipo di musica. Qui, ovviamente, le cose sono molto diverse, e all’inizio non comprendevano molto la mia visione, però per fortuna la mia attuale etichetta, Carosello, mi ha capita da subito, ed è per questo che ho scelto di lavorare con loro. Amo molto anche il fatto che sia una label indipendente, perché ha un approccio diverso rispetto a una multinazionale. Quanto al pubblico, non so se mi capirà, ma la mia filosofia è sempre stata «se ti piace ascoltalo, se non ti piace ignoralo», quindi non me ne preoccupo troppo.
La tua musica ha sempre avuto una vena molto malinconica e introspettiva, ma quest’album è leggermente più spensierato nelle atmosfere. È stata una scelta o una casualità dettata dalle circostanze?
Ho volutamente cercato di bilanciare le mie due anime. Se potessi, farei due album all’anno: il primo molto intimo, con tracce lunghe otto minuti, tanta musica e poche parole velate di poesia (brani tipo Requiem, per intenderci); il secondo allegro, alla Dua Lipa, con veri e propri banger (alla Non è per te). Ovviamente non si può, perciò ho cercato di amalgamare, cercando di non creare un mescolotto terribile – cosa che ogni tanto purtroppo succede comunque, infatti butto via molti brani proprio per questo motivo (ride).
Hai cominciato a cantare nella nostra lingua da poco: le tue prime canzoni erano in inglese…
È partita come una scommessa: i ragazzi con cui collaboro mi hanno detto: «Se riesci a scrivere con il tuo sound un pezzo in italiano che spacca, vuol dire che scrivere canzoni è veramente la tua strada». Io ho provato, ma non ero molto convinta, onestamente: era un po’ difficile per me avere un metro di giudizio affidabile, ma agli altri è piaciuta molto, così ho continuato per tentativi e alla fine mi sono affezionata all’idea. È stata anche un po’ una crescita personale: per scrivere nella propria lingua ci vuole più maturità e sincerità. Alcuni di quei primi esperimenti sono finiti anche nel disco, come la prima strofa di Non è per te o Come quando fuori piove.
Amor, Requiem è una sorta di concept album, un percorso che attraversa varie sfaccettature dei sentimenti. La storia che narri è una sola oppure hai preso ispirazione da diverse esperienze?
Il primo pezzo che ho scritto – lo so perché l’ho controllato proprio l’altro giorno – risale al 23 novembre 2018 ed è Requiem, la traccia che chiude l’album. Quello più recente è Ghiacciai, che è nato nella prima fase del lockdown della primavera scorsa. La lavorazione del disco, insomma, è stata lunga e travagliata, e inizialmente sarebbe dovuto uscire in un’altra forma.
A proposito di Ghiacciai, colpisce molto il fatto che in una canzone d’amore tu canti il testo parlando di te stessa al maschile, e rivolgendoti a una controparte femminile…
Ghiacciai è un brano che sento molto mio, con atmosfere oniriche ispirate a un brano di The Weeknd, Escape from L.A., che mi ha davvero folgorato. Tornando alla domanda, però, non lo faccio per una questione di marketing: è qualcosa che sento. Io, Marianna Pluda, non mi sento Voodoo Kid: Voodoo Kid è un’entità a sé, con la sua storia, che parla e si esprime attraverso di me, ma non è me. È un mezzo attraverso cui incanalo la mia arte, ma non sono io. Nei testi parlo al maschile perché per me Voodoo Kid è un maschio: per adesso quando parla d’amore si rivolge alle donne, in futuro chissà. Ci tengo a poter essere quello che voglio, perché non ho sempre avuto la libertà di farlo.
In che senso?
Da bambini ci uniformiamo a quello che ci dicono che dobbiamo essere: diamo per scontato che debba andare così, insomma. Crescendo, però, magari capita di sentirci diversi, e lo recepiamo come un problema, perché non capiamo cosa ci sta succedendo. Questo fino a quando non incontriamo qualcuno che prova le stesse cose, che sta vivendo la nostra stessa situazione, e magari lì realizziamo che non c’è niente di male nel provare certe sensazioni: non siamo più soli. Vale sia per la sessualità che per la questione del gender, per quanto mi riguarda. Sono davvero contenta che finalmente l’argomento sia sempre più centrale, perché è una questione molto importante e delicata: credo che gli artisti che si sentono così, che condividono quel tipo di esperienza, dovrebbero parlarne sempre di più, perché magari potrebbero essere d’aiuto ai loro fan più giovani, per aiutarli a comprendere che non c’è niente di sbagliato in loro. In generale, penso sia importante esprimersi sugli argomenti che ci stanno a cuore, che nel mio caso sono quelli legati al mondo LGBTQ+ ma anche le tematiche ambientali e la politica.
Oggi, dopo questo lungo percorso per arrivare fin qui, le tue canzoni finiranno finalmente nelle cuffie di tutti. Come ti fa sentire la cosa?
Benissimo! Non vedevo l’ora. È il mio primo disco, ma non ho paura: sono molto emozionata e basta.