Qualche tempo prima del lockdown, Will Butler era in giro per il Meatpacking District, il quartiere di Manhattan un tempo sede di mattatoi e fabbriche, oggi pieno di locali chic e negozi lussuosi. Lì, all’altezza della High Line, il parco lineare ricavato da una sopraelevata in disuso, ha visto una donna vestita alla moda, bella, altezzosa. L’ha subito detestata. «Quel giorno ero incazzato con tutto e tutti, ma soprattutto con quanto assurdamente trendy è diventato il quartiere». E così gli sono venute fuori le parole di una canzone intitolata Fine: “Cammini sul ciottolato con le tue scarpe col tacco alto, lo sguardo sul telefono, un bicchiere di vino e i tuoi bellissimi amici, e io spero che venga la fine del mondo”.
Generations, secondo album del musicista degli Arcade Fire, sembra davvero ambientato pochi istanti prima della fine del mondo e non si capisce se il protagonista voglia l’apocalisse, se stia tentando di evitarla, se non gliene freghi granché. Il disco ha questo fuoco, questo disgusto, ma è anche pieno di sentimenti di confusione, disillusione, disorientamento. È il disco di un uomo vicino ai 40 che fa i conti col suo ruolo in un mondo in fermento. È pieno di fervore, a volte è persino isterico, a volte euforico. Non offre risposte, ma è modo chiassoso e divertente di porsi delle domande.
È nato tutto quando, pochi anni fa, Butler ha cominciato a studiare alla Harvard Kennedy School of Government e a pensare ai suoi ascendenti. Viene da una famiglia di musicisti e intrattenitori da quattro o cinque generazioni. «Trovo che ci sia della bellezza nella trasmissione di questa cosa di padre e madre in figlio. Però mi fa anche pensare alle possibilità che ti vengono date alla nascita». E così nel nuovo album canta la fortuna d’essere nato benestante e con contatti ad Harvard. È senso di colpa per quello che chiamano white privilege? «Non mi sento in colpa, ma è vero quel che canto in quel pezzo e cioè che sono più William Zanzinger che Hattie Carroll», più carnefice che vittima. «È un dato di fatto: non finirò mai in galera per una sciocchezza, se uccido qualcuno ho maggiori probabilità di ottenere uno sconto di pena. Tornando alla mia famiglia, una delle prime jazz band in cui ha suonato Charles Mingus è quella di mio nonno (Alvino Rey, nda). Per girare in tour con loro la California negli anni ’40, Mingus non poteva presentarsi come musicista afroamericano, doveva fingere d’essere hawaiano. Di questo parlo».
Se il debutto di Butler Policy era un disco elettrico e grezzo, quasi garage rock, Generations è più vario e musicalmente complesso. Butler l’ha registrato nell’arco di una settimana nel seminterrato del suo appartamento a Brooklyn con Miles Francis e Julie Shore, «materiale che poi ho ripulito dal solo, di notte, mentre i bimbi dormivano». Altri musicisti hanno aggiunto cori e parti musicali, fiati e legni e percussioni. C’è un’altra differenza fondamentale col debutto e ha a che fare coi testi. «Dico sempre che se Policy era una collezione di racconti brevi, allora Generations è un romanzo. Intendo dire che nel debutto assumevo il punto di vista di vari personaggi, quest’album somiglia invece a una conversazione su quel che sta accadendo. E alla fine di questa conversazione – alla fine del disco cioè – ne esco fuori con un’idea del mondo che al tempo stesso più cupa e più gioiosa».
Il titolo dell’album evoca non solo la storia famigliare del musicista, ma anche il testo della prima canzone, Outta Here, in cui Butler dice di averne “abbastanza della tua generazione”. «Sono nato nel 1982, ho un paio d’anni in più di Mark Zuckerberg, sono un millennial vecchio e per molti anni i millennial sono stati il punching ball dei media. Il mio è uno sfogo rivolto a tutti, a chi è più giovane di me e a chi è più vecchio. In pratica, dico a tutti quanti di chiudere quella cazzo di bocca». Sfoghi come questo sono tipici dell’album e sono bilanciati da pezzi gioiosi come Surrender, un call-and-response con le voci femminili di Sara Dobbs, Julie Shore e Jenny Shore. Influenza del gospel? «Più che altro della Motown, di Smokey Robinson & The Miracles. E ovviamente c’entrano gli Arcade Fire dove cantano uomini e donne. Credo sia anche il riflesso musicale dell’idea che dovremmo vivere in una società plurale».
Tutto questi pensieri confluiscono nell’ultima canzone che è una specie di post scriptum allucinato. È Fine, quella con dentro la tipa del Meatpacking District e la citazione di Hattie Carroll. È un bell’esempio di songwriting nella tradizione di Randy Newman. Inizia con l’immagine di George Washington e dei suoi schiavi, illustra il privilegio d’essere nato in una famiglia bianca, contiene un dialogo col primo presidente degli Stati Uniti dove si mischiano piani della realtà e dell’irrealtà, la storia del Paese e le storie personali del musicista. «C’è quell’elemento di commedia tipico del Randy Newman anni ’70. Sapeva essere ironico, ma non distaccato. Era magnificamente brutale».
Il protagonista di Generations non ha sempre la lucidità di un Randy Newman. A volte è terrorizzato come in Not Gonna Die, ispirata alla strage del Bataclan e ai politici che vogliono sfruttare la paura della gente. A volte dà l’impressione d’essere un uomo frustrato che non riesce a dare un senso a un mondo complesso e fuori controllo. «È proprio così, è il disco di un uomo che si sente impotente. Del resto c’è un ritornello che lo dice chiaro e tondo: “I don’t know what I can do”, non so che fare. Un’opzione è scappare». Non è sbagliato voltare le spalle ai problemi? «Hai presente la promessa del giuramento di Ippocrate che dice che la prima cosa è astenersi dal fare del male? Io credo abbia un valore universale. Credo che a volte sia giusto dire: faccio un passo indietro».