Nell’epoca in cui il politically correct diventa l’abito scuro comodo per tutte le occasioni, Willie Peyote è il cugino borderline che si presenta con il giubbotto di pelle al funerale della prozia, sbronzo e per giunta divertito dalle occhiate severe dei parenti. Sarà per i suoi precedenti nella scena punk torinese, sarà perché – ora che è un rapper – rimane uno dei pochi a saper utilizzare la metafora più come perculata che come paraculata, fatto sta che Guglielmo ha deciso di ‘stonare’ con orgoglio, di guardare da fuori l’ego titanico della scena hip hop e, allo stesso tempo, di spernacchiare quello lillipuziano dell’indie da cameretta.
Nessuna serenata da falò, figurarsi dentiere diamantate, Willie Peyote continua ad autocategorizzarsi, perché la coerenza con cui l’ironia entra nelle sue liriche non cade bene a nessun genere musicale. La canzone volutamente satirica, a volte estremizzata fino al grottesco: un ritorno al testo dissacrante che continua a suonare, dal primo album fino all’ultimo Sindrome di Tôret, come una ventata di ossigeno, con buona pace di chi lo trova offensivo. Femministe, vegani, salutisti, buonisti, antirazzisti, il bestiario della società cui Willie si rivolge nei suoi testi è cresciuto, album dopo album, senza arretrare di un millimetro, anche quando il grande pubblico si accorse di lui per lo scandalo gridato da Maurizio Belpietro ai tempi in cui il rapper svergognato presentò la sua Io non sono razzista ma… in televisione, luogo in cui la satira è spesso oggetto del mistero – figurarsi la satira in musica, che ancora dobbiamo capire Gaber.
Nei giorni del Mi Ami, Willie è passato a trovarci, sudaticcio e in bermuda dopo le prove, senza il consueto seguito di manager sorveglianti o guardinghi uffici stampa di cui la maggior parte degli artisti è costantemente circondata, e il risultato sono le bordate da centrocampo che si è divertito a tirare, tra le sciarpate ultras che oggi impazzano in Parlamento o l’odi et amo dedicato ai colleghi trapper. Ma non parlategli di Gigi Buffon.
Hai appena suonato sul palco del Mi Ami, in cui eri uno degli artisti più attesi. Dopo questa ‘consacrazione’ del Magnolia, citando la tua canzone I Cani, ti senti “più rap o più indie”?
Mi continuo a sentire un rapper, anche se dentro le canzoni ho sempre infilato tutti i miei ascolti, cercando di essere più trasversale possibile. Siamo in un momento storico in cui questo ibrido tra rap e suonato funziona, e se dieci anni fa ero sempre fuori contesto, diciamo che ho avuto culo perché ora c’è un pubblico che ha iniziato a capire e ad apprezzare uno stile che ho sempre portato avanti, senza vincolarlo al rap o all’indie: da una parte, perché quando finirà la bolla dell’indie, io continuerò a fare il mio, a prescindere dalle mode, dall’altra, se la scena rap mi ha sempre escluso, ora sono io che non ci voglio entrare.
Certamente ciò che ti ‘allontana’ dal rap contemporaneo è il discorso sociale che continui a portare nella tua musica, discorso che la scena attuale sembra aver dimenticato.
Non soltanto il rap, ma in tutta la musica italiana sono pochissimi gli artisti che nelle canzoni cercano di trattare tematiche sociali o culturali. Per quanto mi riguarda non riuscirei mai ad amalgamarmi nella musica vista solo come svago, come una serie di ritornelli da cantare a memoria durante i concerti. Non potrei mai prescindere da certe tematiche perché sono cresciuto ascoltando Rage Against The Machine, 99 Posse, Gaber, e come loro cerco di fare canzoni ‘leggere’ in cui il pubblico si ritrovi anche a pensare. La mia missione è fare musica satirica e non posso non parlare anche di attualità.
Parlando di attualità più strettissima: nella tua canzone Avanvera, racconti di un “ministro senza laurea”. Sembra il ritratto di quanto accaduto la scorsa settimana, durante l’affaire Conte.
Oggi in Italia c’è una confusione enorme: arriviamo dalla peggiore campagna elettorale di sempre, e chi prima accusava i ministri senza laurea ora propone un premier che mente sui titoli di studio. In politica non si parla più di tematiche concrete, ma si è più preoccupati a farsi la guerra tra fazioni, esasperando l’uno le magagne dell’altro. In quel brano, invece, volevo sottolineare l’assurdità per cui mentre i miei coetanei vengono ‘accusati’ di essere troppo qualificati per trovare un lavoro, chi decide le sorti di un Paese sembra non avere bisogno di titoli di studio.
Sempre in I Cani, ritrai la società come uno scontro tra tifoserie, per cui sembra di rivedere quanto successo in campagna elettorale e detonato in questi ultimi giorni di trattative con il coltello fra i denti. Quando scrivi, racconti ciò che ti circonda o cerchi di prevedere come andrà?
Analizzo ciò che vedo, senza voler prevedere perché non sono Nostradamus, ma cercando di intuire la direzione in cui si sta andando. Quella canzone era nata parlando con alcuni militanti Cinque Stelle, per il modo in cui hanno polarizzato la campagna elettorale con lo slogan “noi siamo gli unici onesti, non puoi moralmente votare per nessun altro”. Credo che oggi sia più facile schierarsi con qualcuno in base ai colori della maglia che si decide di indossare, senza fermarsi a riflettere se si è davvero d’accordo sui contenuti. Se c’ho azzeccato vuol dire che, purtroppo, sono tutti troppo prevedibili, ed è colpa loro, non mia. Ora che ci penso è capitato anche in Vecchio ho fatto un sogno, quando raccontavo di Gigi Buffon futuro Ministro per lo Sport.
Ne sei ancora convinto?
È facile che qualcuno glielo proponga davvero e basta ascoltare le interviste di Buffon per capire che da parte sua almeno le intenzioni ci sono. A me fa paura perché è un affabulatore. Non lo volevo capitano della Nazionale, figurati come ministro della Repubblica. Credo sia una brutta persona, e mi spaventa perché ha simpatie di estrema destra, peraltro mai dichiarate. Non voglio un altro politico con queste ‘tendenze’. Non mi piace proprio.
Certamente quando qualcuno o qualcosa non ti piace non hai paura di fare i nomi. Hai preso in giro il movimento femminista così come i vegani, senza dimenticare quando mandasti Belpietro su tutte le furie. Ti piace fare incazzare le persone?
Si, mi diverte molto imbarazzare e provocare, trovo sia un modo efficace per vedere il vero volto di chi mi sta davanti, oltre le maschere che indossiamo continuamente. Come dicevo, con le mie canzoni voglio fare satira e mi ispiro alla stand-up comedy più cattiva, che a volte riesce a imbarazzare persino me che non sono proprio un’educanda. Se poi riesco a mettere in imbarazzo Belpietro, lo prendo come una medaglia.
In Metti che domani, invece, torni a prendertela con uno dei tuoi soggetti preferiti, gli italiani, cui rinfacci il disinteresse per ciò che li circonda.
Gli italiani sono da sempre un popolo suddito, ma che allo stesso momento trova sempre un modo per non farsi fottere totalmente. In quella canzone racconto il modo tutto nostro con cui confidiamo di riuscire sempre a cavarcela, aspettando l’ultimo momento in attesa che accada ‘il miracolo’. Un po’ più di organizzazione potrebbe essere un punto su cui lavorare in futuro (ride, nda). Ma sia chiaro, io sono tutte le categorie che insulto: parafrasando Gaber, mi sento profondamente italiano, soprattutto nelle mie contraddizioni.
Insomma, rimani uno dei pochi baluardi del conscious rap in Italia mentre la corrente sembra andare da un’altra parte, verso la trap, dove spesso la parola viene usata più per rispecchiare una metrica che per il suo significato.
Io non mi sento portavoce di nessun movimento e allo stesso tempo non sono un membro del partito anti-trap, anzi, alcuni di questi ragazzi mi affascinano molto, proprio per la loro capacità di usare le parole in maniera diametralmente opposta alla mia. In particolare artisti come Ghali e Tedua hanno dimostrato di poter unire la metrica figa con il contenuto. Non reggo la Dark Polo Gang, perché sono finti e fanno musica buona per vendere scarpe, mentre paradossalmente apprezzo Young Signorino per le sue basi techno: ci siamo sconvolti per quello che dice nelle canzoni? I vocalist nelle discoteche dicevano le stesse minchiate 20 anni fa, nessuno si è inventato nulla.
La tua carriera è passata da anni di gavetta, mentre i ragazzi della trap sono esplosi subito, e nonostante tu fossi uno degli artisti più attesi al Primo Maggio, l’headliner era Sfera con i suoi due Rolex.
Ti faccio una metafora calcistica: io sono come Sarri mentre Sfera è Mancini, uno che appena finito di giocare ha subito allenato una grande squadra e oggi guida la Nazionale, mentre Sarri forse continuerà a essere l’eterno secondo. Io sono fiero di essere Sarri: non voglio vincere per forza, ma portare avanti un discorso coerente. Figurati poi che io sono del Torino e, se anche potessi permettermeli, non indosserei mai due Rolex, è una cosa che avrebbe fatto Gianni Agnelli. La polemica su Sfera che insulta i lavoratori mi ha fatto molto ridere: era stato chiamato per riempire la piazza ed è ciò che ha fatto, ci si aspettava un’invettiva contro il capitalismo? Da Sfera Ebbasta? Lui dichiara la sua rivalsa sociale e nel rap questo discorso c’è sempre stato. Io e Sfera probabilmente non andremo mai a berci una birra insieme, ma certamente non mi infastidisce.
Lui ha portato sul palco la sua storia, partito da Cinisello Balsamo fino a diventare una trapstar, la stessa raccontata anche nel suo libro, Zero. Tu che sei partito da un call center e ora sei per molti il riferimento del cantautorato rap, lo scriverai mai un libro?
Non credo, e più gli altri scrivono libri meno voglio scriverlo io. Per due ragioni: primo, non serve disboscare l’Amazzonia per scrivere le nostre stronzate. Secondo, ho troppo rispetto per la letteratura e ad oggi non mi sento pronto per un libro: lasciamoli scrivere a Levante o Sfera, che evidentemente hanno cose molto più interessanti da dire (ride, nda).