«Come tutti i torinesi non mi prendo sul serio, ma prendo molto sul serio quello che faccio» confessa Willie Peyote con il suo consueto misto di ironia e solennità. E in effetti l’essenza del suo ultimo album Sindrome di Tôret, fuori da oggi, è proprio questa: una carrellata di questioni molto serie, a tratti drammatiche, snocciolate con una leggerezza e un acume che ti fanno venire voglia di riderci su, e con uno spessore musicale che non ricorda affatto quella del classico rapper da vetta delle charts. Classe 1985, Willie si era già tolto un bel po’ di soddisfazioni con il precedente Educazione Sabauda. Tipo strappare da sconosciuto e indipendente un’ospitata da Fazio a Che Tempo che Fa, e cantare davanti a tutti il singolo Io non sono razzista ma… provocando l’indignazione del quotidiano di Maurizio Belpietro La Verità per aver accusato di xenofobia l’Italia intera in prima serata («Una delle più grandi gioie della mia vita, fare incazzare Belpietro»). Questo nuovo disco promette di fare incazzare molti altri, in effetti, ma è molto probabile che si moltiplicheranno anche le soddisfazioni e i fan, a giudicare dalla bellezza e dall’intelligenza delle sue nuove canzoni.
Il tuo percorso all’interno del rap italiano è sempre stato abbastanza atipico…
Ho iniziato suonando il basso in una band punk rock, il rap mi ha folgorato solo durante gli ultimi anni delle superiori. All’inizio cercavo di mettere un po’ di rap nei miei pezzi suonati, e ora invece cerco di mettere la musica suonata nei miei pezzi rap. Se ci pensi, è come un cerchio che si chiude. Credo che questo disco sia un punto di congiunzione perfetto tra le mie due anime, quella più rock e quella hip hop.
Oggi accostare una band a un rapper è una cosa normale, ma quando hai iniziato tu, nei primi anni ’00, bisognava scegliere: o l’hip hop o la musica suonata. Ti pesava?
Sicuramente sì, anche perché nella mia famiglia tutti suonavano qualcosa. Io ero l’unico che viveva la musica in un altro modo. Quando facevo punk mi mancava il fatto di non poter lasciare spazio alle parole, e quando ero un rapper mi mancava la dimensione della sala prove. Mi sono sempre sentito un ibrido, insomma.
Sindrome di Tôret non è un crossover tra due generi, ma un mosaico: dentro c’è di tutto, dal punk al funk, dal jazz al rap. Da dove viene questa varietà?
Dal fatto che stavolta non ero solo. Questo è un album a sei mani: le mie, quelle di Frank Sativa e quelle di Kavah, che lo hanno arrangiato e prodotto con me. Ci abbiamo ragionato insieme, e credo che le varie influenze si sentano: la deriva jazz de La metà di me, ad esempio, è stata imposta da Frank, mentre I cani ha una virata blues voluta da Kavah, che è un grande fan dei Black Keys. Credo che ogni musicista che ha partecipato al disco abbia lasciato la sua impronta: Frank, Kavah, i ragazzi della band, Roy Paci nel cui studio abbiamo registrato il disco, e la Terza Sopra Gang, che è una specie di crew goliardica di cui faccio parte io, i rapper Dutch Nazari e EraSfera, la cantante/producer Serenase e il produttore Sick et Simpliciter. Per me è il prodotto di un intero collettivo.
A proposito di collettività, ascoltando i vari brani si percepisce una grande insofferenza per la società di oggi…
Sindrome di Tôret è una specie di concept album che parla della libertà di espressione, e soprattutto dei suoi paradossi. Tipo il fatto che vietano gli striscioni offensivi allo stadio, ma poi permettono a Libero di andare in stampa con dei titoli agghiaccianti. O le diatribe tra squadre contrapposte, come pro-vax e no-vax, nazi-vegan e anti-vegan. A parole ce l’abbiamo tutti con gli stupidi, ma nessuno accetta di poter essere lo stupido di qualcun altro. Ci crediamo sempre i migliori, i più titolati a parlare.
È di questo che parli nella prima traccia, Avanvera, quando dici “A parte i verbi e forse l’algebra hanno tutti da insegnare, un popolo di Alberto Angela”?
Anche. La struttura della tracklist è un percorso: si parte da Avanvera, uno dei pezzi più cattivi, in cui ci sono io contro gli altri. Poi arrivano brani come Il gioco delle parti, in cui ci sono io insieme agli altri, come concausa del problema. In Donna bisestile arrivo a provare empatia per gli altri, e poi si chiude con Vendesi, in cui ricomincia il giro della cattiveria.
Un percorso circolare, insomma?
Già, proprio come i nostri schemi mentali quando si parla di libertà di parola: un gatto che si morde la coda. Pretendiamo di essere liberi di dire quello che vogliamo, ma non ci piace il fatto che chi non la pensa come noi abbia la stessa facoltà. E siamo pieni di certezze, cosa che mi spaventa moltissimo. Puoi anche avere ragione, ma quando trasformi una scelta personale in una scelta assoluta, magari senza avere le basi per poterlo fare, la situazione si fa insostenibile. Prendi ad esempio i vegani: non mangiano carne per una questione etica, ma in compenso mangiano tonnellate di quinoa, i cui prezzi salgono alle stelle, con la conseguenza che in Sud America i poveri non possono più permettersela anche se è sempre stata alla base della loro dieta. È più etico, questo?
Si potrebbe dire che nell’album hai una buona parola per tutti. In Metti che domani ti rivolgi ai nostri connazionali: “Metti che domani scoppia la guerra mondiale/ ma noi siamo italiani e puntiamo a pareggiare/ metti che domani vinciamo il campionato/ scendiamo tutti in piazza come in un colpo di stato”…
Come popolo siamo bravissimi a trovare sempre un escamotage per pararci il culo. La cosa buona è che riusciamo sempre a tirarci fuori anche dalle situazioni peggiori, quella meno buona è che siamo molto passivi, perché siamo sicuri di cavarcela sempre. Aspettiamo di arrivare al limite ultimo sopportabile, prima di agire. Ma non penso che sia un problema solo italiano: non credo che gli Stati Uniti ne escano molto meglio di noi, in questo periodo.
Sindrome di Tôret è una specie di concept album che parla della libertà di espressione, e soprattutto dei suoi paradossi
Il tuo intento provocatorio è stato chiaro fin dal primo singolo dell’album, I cani, nel cui ritornello ripeti a macchinetta che “le preghiere non funzionano ma le bestemmie sì”. Non hai avuto paura di esagerare?
No, perché mi piace provocare. In quel pezzo, al di là del ritornello, ci sono alcuni concetti che si ripetono in tutto l’album. Su tutti: “Nella vostra trasgressione c’è un sacco di conformismo/ in tutto quel disagio c’è un sacco di narcisismo”. Ultimamente all’estero vanno molto di moda le canzoni che parlano di depressione. A quegli artisti piace vincere facile, perché in fondo siamo tutti un po’ depressi, e perché dire nelle interviste che devi calarti qualche goccia di Xanax prima di salire sul palco fa figo. Ma così sminuisci tutto, perché c’è gente che quel problema ce lo ha davvero, e che ha smesso di salire sul palco per via degli attacchi di panico.
Tornando a preghiere e bestemmie, però, il tuo rapporto con la religione è particolarmente complicato: sei cresciuto in una famiglia di Testimoni di Geova, e quando da ragazzino è arrivato il momento di scegliere se farti battezzare per entrare anche tu nella congregazione, hai deciso per il no…
Non tutta la mia famiglia fa parte dei Testimoni (mio padre ad esempio non lo è), perciò ho vissuto una grande contraddizione anche nel mio nucleo ristretto. Negli anni ho imparato a affrontare la cosa con ironia e a fare pace con il passato, ma non nego di avere un rapporto molto conflittuale con la fede, perché nell’infanzia l’ho subita. È stato difficile, a un certo punto della mia vita, dover dire ai miei cari che la loro scelta di vita mi faceva orrore: sapevo che li avrei feriti immensamente, ed è stata molto dura.
Perché parlare della spiritualità in questi termini e in una canzone, allora?
Proprio per esorcizzare, perché è un tema che effettivamente vivo con una certa ansia. Ne I cani lo affronto in modo molto leggero (anche se so che non tutti sarebbero d’accordo): il ritornello cita uno studio scientifico che dimostra che se ti fai male e ti sfoghi bestemmiando, percepisci meno il dolore. Una scusa un po’ ironica per parlare in maniera seria del ruolo che ha la religione nella mia vita; in effetti è un tema ricorrente nelle mie canzoni, come tante altre cose che mi hanno mandato in crisi, ad esempio il lavoro.
Anche in questo il tuo è stato un percorso anomalo: dopo l’università hai cominciato a lavorare in un call center, da cui ti sei licenziato il giorno prima di partecipare al concorso per autori di canzoni che poi hai vinto. Da allora sei un felice musicista freelance…
Diciamo pure disoccupato! (ride) E non è poco: non credo siano tanti, i disoccupati felici. Non mi sono mai pentito di quella scelta, anche se all’inizio avevo paura, soprattutto di perdere il contatto con la realtà. La scena musicale è un ambiente molto rarefatto e artefatto, non è facile tenere i piedi per terra.
Della scena e del mercato musicale parli proprio in Villipendio, togliendoti qualche sassolino.
Anche in Vendesi: le groupie sono una metafora per parlare di quelle persone che cercano qualcosa da te solo quando sei già famoso, proprio come fa l’industria discografica italiana. Villipendio, invece, è più uno sfogo rivolto ad alcuni miei colleghi. Fare i nomi sarebbe stato poco elegante, ma credo si capisca perfettamente a chi mi riferisco. Non è così difficile intuirlo.
In tutto il disco i vari brani si alternano agli spezzoni di un monologo. Di cosa si tratta?
È Elogio di un perdente, il nuovo lavoro teatrale di Giorgio Montanini, che è stato così gentile da registrare la prima del suo spettacolo e regalarmi l’audio. Adoro la stand-up comedy, e credo che lui sia il migliore artista italiano in quel campo. Lo avevo contattato, da semplice fan, per chiedergli se aveva voglia di scrivere qualcosa apposta per l’album; lui mi ha risposto che stava scrivendo uno spettacolo che parlava anche di libertà di espressione, e che quindi avrebbe avuto più senso intrecciare le due cose. E così è stato.
Ultima domanda, che restando in tema di circolarità forse doveva essere la prima: perché il disco s’intitola Sindrome di Tôret?
La sindrome di Tourette è una condizione neurologica, chi ne soffre è affetto da tic verbali e non è in grado di controllare ciò che dice. Ho voluto fare un gioco di parole con i tôret, che sono le tipiche fontanelle di Torino, quelle col rubinetto a forma di testa di toro, che continuano a sputare fuori acqua in un flusso continuo. Neanche loro – come me, e come chi ha la sindrome di Tourette – tengono mai la bocca chiusa.