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Willie Peyote: «Quelli che volevo fare incazzare davvero l’hanno presa sul ridere»

Era partito come «corpo estraneo del Festival», ora se la gioca con Ermal Meta. Il rapper racconta le polemiche sul testo del suo pezzo, come sta vivendo il successo, lo scetticismo per la finale

Foto: Jacopo M. Raule/Getty Images

Willie Peyote non ci ha mai creduto fino in fondo, al fatto che la sua presenza a Sanremo potesse diventare qualcosa di più o di diverso rispetto a quel ruolo da “corpo estraneo” che si era auto-attribuito inizialmente. E invece, contro ogni previsione (sua, perché i bookmaker ci avevano visto lungo), finora è stato largamente premiato in tutte le serate del festival. È piaciuto alla giuria demoscopica, alla sala stampa, all’orchestra, tant’è che nella classifica generale di ieri, quella che sommava i voti delle tre giurie, è risultato secondo solo all’inaffondabile Ermal Meta: un risultato pazzesco per un artista che fino a qualche giorno fa era un illustre sconosciuto per buona parte del grande pubblico. La sua educazione sabauda, però, gli impone di non scomporsi e di prendere ogni avvenimento della sua vita con una certa dose di ironico scetticismo, e questo non fa eccezione. Tant’è che quando lo sentiamo al telefono, nella tarda mattinata di oggi, commentare il suo posizionamento in gara è l’ultimo dei suoi pensieri: ci sono argomenti che gli stanno molto più a cuore.

Come procede, a questo punto della settimana?
In generale sono tranquillo, ma la domanda che mi pongo dopo il secondo posto di ieri, per parafrasare Bebo de Lo Stato Sociale, è se è giusto diventare famosi e popolari con una canzone come la mia in una nazione in cui, in base ai sondaggi, Lega e Fratelli D’Italia detengono qualcosa come il 40% delle simpatie degli elettori.

Appunto: come l’hai presa?
Beh, ovviamente bene perché è una bella cosa, le persone che lavorano con me sono tutte contente, mia nonna pure, ma dall’altro lato mi chiedo dove ho sbagliato, se le uniche che si sono incazzate per quello che dico sono le femministe. Quelli che volevo fare incazzare davvero l’hanno presa sul ridere e sono passati oltre, e invece loro, con cui volevo confrontarmi, se la sono presa. Mi spiace molto.

Secondo te perché è successo?
Perché è difficile affrontare queste discussioni: essendo io un uomo, se parlo della lotta al patriarcato sbaglio di default in qualunque modo ponga il problema, in quanto faccio già parte della cultura patriarcale. Il che è proprio il motivo per cui ho inserito nel testo una battuta volutamente provocatoria: era un modo per dire che mi spiace non poter più affrontare questi temi, e dall’altra parte vederli sviliti sul palco dell’Ariston in altre forme. Vogliamo parlare del monologo della Palombelli di ieri sera?

In effetti si è attirata parecchie critiche…
Io capisco tutto, ma perché nessuno si pone il problema che durante il Festival vengano pronunciate parole come le sue, che il testo di Arisa (scritto da Gigi D’Alessio, un uomo) dica che lei è nuda e lui non si alza dal divano, che Beatrice Venezi voglia farsi chiamare direttore d’orchestra e non direttrice? Parliamo anche di tutte queste cose.

Le parole criticate dalle femministe nel tuo testo sono state “Mi sono sbagliato / Non ho capito in che modo twerkare vuol dire lottare contro il patriarcato”, in riferimento alla performance di Elettra Lamborghini l’anno scorso. Ti hanno accusato di mansplaining…
Sono andato in un luogo pregno di simboli patriarcali e volevo fare una riflessione, e invece è sembrato quasi che ci sguazzassi. Se dicono che sono un paraculo e un qualunquista mi va benissimo, ma che non ci sia più spazio per le provocazioni e la successiva discussione mi dispiace tantissimo. Il problema della cancel culture è che non bisogna abolire gli argomenti: bisogna trattarli finché non si risolve il problema. E invece sembra diventato impossibile, e non solo rispetto a queste tematiche. Hai visto cos’è successo con L’Ultimo Concerto, per esempio? Follia.

Non ti aspettavi qualche incomprensione, su un testo del genere?
Certo, anzi. Mi aspettavo anche che potesse succedere la stessa cosa che è successa a Caparezza con Fuori dal tunnel, un brano che porta una riflessione seria e che invece è stato largamente recepito come una canzoncina. Mai dire mai (la locura) voleva essere un cortocircuito, e credo che la maggior parte delle persone ne abbiano capito il senso, ma era ovvio che qualcuno avrebbe frainteso le mie parole o che le avrebbe strumentalizzate dando loro un senso che non volevo dare. Certo è che se arrivano a interpretare una mia barra come un modo per denigrare il movimento femminista, evidentemente è un errore mio, dovevo starci più attento.

È il paradosso di quando scrivi una canzone che diventa molto popolare: all’improvviso non è più tua, ma di tutti, e ciascuno la interpreta a modo suo.
Io scrivo come nel rap: una serie di punchline, cioè battute ad effetto, che dovrebbero essere prese come tali, e soprattutto di cui bisognerebbe contestualizzare meglio il soggetto. Quando parlo di It-pop non ce l’ho con i musicisti che fanno quel genere, ma con quei giornalisti che chiamano avanguardia una scena che esiste da almeno cinque anni e di cui non si erano mai accorti prima. Quando parlo di TikTok non ce l’ho con i creators, ma con le case discografiche che aspettano al varco quelli che hanno fatto successo sui social per metterli sotto contratto. Idem per il twerking: non ce l’ho con quello stile di danza o con la Lamborghini, ma punto il dito sul fatto che twerkare a Sanremo non può trasformarti in un simbolo di lotta, soprattutto se vivi nel privilegio da quando sei nata.

Quali sono stati invece i complimenti che ti hanno stupito di più?
Beh, a parte le varie recensioni sempre fin troppo lusinghiere, tipo quella di oggi in cui mi dicevano che il testo di Mai dire mai (La locura) sarebbe potuto essere stato scritto da Ennio Flaiano… (ride) Mi fa davvero felice il fatto che i miei colleghi, soprattutto quelli più vicini a me per posizionamento o a livello anagrafico, sono tutti davvero gentili e simpatici con me. Anche quelli che magari prima non conoscevo bene personalmente, come Damiano dei Måneskin, Madame o La Rappresentante di Lista. Oltretutto le loro performance sono pazzesche, è innegabile che tutti e tre si mangino il palco.

Insomma, sei arrivato a Sanremo pieno di dubbi che fosse il posto giusto per te, e invece…
Mi ci ritrovo, sì. Però è molto buffo vedere che adesso nel mio staff sono tutti tesi, perché dopo la classifica di ieri è come se fossi davvero in gara. Continuo a ripetere che io sono venuto qui a fare il cazzone, cosa con cui eravamo tutti d’accordo, almeno fino a quando non hanno visto quel secondo posto… (ride) Ora sostengono che mi tocca giocarmela davvero!

Di conseguenza, a me tocca ribadire la domanda che ti ho fatto nell’intervista precedente: e se vinci?
Giuro, non è scaramanzia: oggi subentra il televoto, e nonostante io abbia lavorato tanti anni in un call center, non ho più agganci in tal senso (ride). Giustamente verranno premiati altri artisti, e va bene così, anche perché non ho capito perché finora non sia successo: c’erano nomi che se lo meritavano davvero, come Madame, una ragazza di 19 anni che sul palco è stata perfetta. Perché lei non è stata capita e io sì? Dove ho sbagliato?

Forse l’ironia batte la poesia.
Forse, o forse è la cassa dritta che rende tutto più ballabile.

Sempre nella precedente intervista dicevi che in lockdown non avevi scritto praticamente nulla, perché non avevi ispirazione. Sanremo te l’ha in qualche modo risvegliata?
Sicuramente sì, perché ho vissuto un sacco di controsensi e di paradossi. L’altro giorno, ad esempio, eravamo in diretta su Twitch per commentare il festival (nel format Le brutte intenzioni, con Federica Cacciola e Daniele Fabbri, nda), è passato a trovarci Valerio Lundini e lo stavo prendendo in giro per il fatto che a lui le fanno sempre passare tutte, e che vorrei tanto avere la stessa fortuna. Lui, a mo’ di battuta, mi ha risposto “Beh, ma tu sei percepito come un artista di sinistra e hai un pubblico di sinistra: è normale che da te si aspettino molto di più!”. E in effetti è vero: se sei di sinistra devi essere un cavaliere senza macchia e senza paura. Le persone pretendono tantissimo dai suoi idoli e molto poco da se stesse.

Con che spirito affronterai la finale, quindi?
Non saprei: spero soprattutto di divertirmi, perché non ci sono ancora riuscito del tutto. La tensione è sempre tanta durante le performance: il direttore d’orchestra continua a ripetermi che devo anche godermela un po’, ma non è semplice farlo mantenendo un livello alto di concentrazione. Per fortuna sto migliorando anche sotto l’aspetto attoriale: sorrido e faccio finta che vada tutto bene! (ride)

Beh, a questo punto sei pronto per un cameo per la quarta stagione di Boris.
Ma magari!

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