Quest’anno i Jalisse saranno di nuovo a Sanremo. Non è una fake news e nemmeno la fantastoria del Festival che vorremmo. Li canta Willie Peyote, al secolo Guglielmo Bruno, nel suo Grazie ma no grazie, con cui salirà in gara sul palco dell’Ariston. La dichiarazione arriva in testa al pezzo, giusto per mettere in chiaro le cose: “Ma che storia triste, avevo aspettative basse / E sai già come finisce visto da dove si parte / Tu vorresti che la gente ti capisse, la ami come se lei ricambiasse / E ci hai provato anche più volte dei Jalisse ma l’insistenza non è mai così di classe”.
Una strofa che condensa una carriera, almeno fino a ora. Il non montarsi la testa, il dolore per qualcosa che va storto e che bisogna dissezionare. Il poeta T.S. Eliot lo chiamava correlativo oggettivo, immagine che restituisce uno stato d’animo che si lega allo stato della storia, del mondo. C’è questa immagine cesellata, all’inizio di quella poesia che intitola Canto d’amore di J. Alfred Prufrock, e che poi si rivela non essere esattamente una serenata al chiaro di luna: “Allora andiamo, tu ed io, / Quando la sera si stende contro il cielo / Come un paziente eterizzato disteso su una tavola”. Amore, capolinea, tagliare a pezzettini per capirci qualcosa.
Solo che il paziente è lui, Willie, che come ci ha abituato, anche questa volta comincerà dalla (sua) realtà, e nient’altro che dalla realtà, per cercare di farci prendere quel famoso straniamento, il passo indietro che produce una lettura più chiara della situazione. Che ci costringe a pensare. Sarò forse questo, il merito maggiore di Grazie ma no grazie, al netto di come andrà nella gara – alla sua prima partecipazione al Festival, nel 2021, Willie Peyote si era portato a casa il Premio della critica Mia Martini con Mai dire mai (la locura). Tutt’altro che un fallimento, e nonostante questo Guglielmo si sente ancora un underdog, quello che ci va sempre sotto, che sbaglia, che è intelligente ma non si applica o che forse, più semplicemente, ha Saturno contro.
“Questa gente non fa un cazzo li mantengo tutti io con le mie tasse / Grazie ma no grazie / Dovresti dare meno ascolto ai sentimenti che non sono mai dei buoni investimenti / Dovremmo organizzare una rimpatriata tipo una cena di classe / Grazie ma no grazie”. E intanto che cominciamo a uscire da un po’ di quei gruppi WhatsApp in cui potrebbe spuntare, uno di questi giorni, un invito a una tale occasione, Willie se ne fuma una guardandoci da lontano. Cioè, è quello che succede sulla copertina del suo ultimo disco, che verrà arricchito con quattro canzoni il 14 febbraio. Si chiama Sulla riva del fiume e sono ancora indecisa se pensare sia più un riferimento all’Arte della guerra di Sun Tzu (o Confucio, non è chiaro) o a quel libro di Paulo Coelho, Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto.
Non gliel’ho chiesto quasi per fallire anche io, per non dover rivelare di non aver letto nessuno dei due. Anche questa storia della sigaretta, comunque, è un bel correlativo oggettivo. Ci torneremo, in questa chiacchiera alla vigilia di Sanremo.
Foto: Chiara Mirelli
Grazie ma no grazie, anche se al secondo Sanremo hai detto di sì.
Ho ragionato su come ero arrivato al precedente, naïf, impreparato. Quello del 2021 è stato un Festival particolare, un po’ a metà. Volevo provare l’esperienza nella sua interezza, viverla tutta, incontrare davvero le persone.
Ti hanno già bollato come il più politico dei tuoi colleghi di palco.
Non lo so, immaginavo. Non è scontato parlare di certi temi nelle canzoni. In realtà non mi sento così politico, certo per carità, nel mio testo ci sono riferimenti alla società. Però a Sanremo ci arrivo sempre allo stesso modo, da underdog, outsider. È quello il mio posto.
Però la carriera ce l’hai, e scusa se mi permetto, ma quest’anno ne fai 40. Davvero sei ancora un underdog?
Diciamo che non sono un emergente. Underdog lo dico perché non parto mai favorito nella vita, quindi posso esserlo anche dopo i 40 e oltre. È più un modo di approcciarsi alla discografia. Non sono di primo pelo e non esordisco all’Ariston, allo stesso tempo non sono un perfetto sconosciuto. Anche se, per come mi rapporto al pubblico io, tra un Sanremo e l’altro si può anche essere fatto in tempo a dimenticarmi.
Qualcuno tra il pubblico, invece, ti scoprirà. Che cosa vedrà sul palco?
Il pezzo è un po’ diverso rispetto al mio solito, ha una musica più allegra. Già una novità, per la mia carriera. Ci sarà quindi un approccio diverso anche sul palco, per tenere dietro a questa ironia, questa chiave leggera. Ci sarà più movimento.
Ti dicono che sei politico, ma magari sei solo sincero, Guglielmo e non solo Willie. Dire Grazie ma no grazie ti definisce in negativo, però. Se dovessi definire in positivo?
Direi che intanto ho detto di sì a Sanremo! Credo che le carriere si fondino più sui no che dici rispetto ai sì, quindi rivendico i miei no e di essere quello che dice no. Non è chiamarsi fuori, è confrontarmi con la fenomenologia dei pensieri che incontro camminando per strada, o sui social. Li leggo, li ascolto e va bene tutto, grazie, però no grazie, preferisco trattare di quei temi in maniera diversa. Con approfondimento. Poi, chi sono io? Sono una persona che nella vita ha avuto la fortuna di fare quello che voleva fare. Oggi mi sento più me stresso di quanto non lo fossi nel 2021. Sono nel momento giusto della mia carriera, in controllo della situazione. Internamente, stringo il bandolo della matassa.
Queste sono alcune definizioni che gli altri hanno dato di te: rap, indie, cazzone, stronzo.
Tutto vero. Sono meno stronzo di quanto appaio nelle mie canzoni, eh. Vero è che fuggo dai buoni sentimenti quando scrivo, e questo forse esacerba i miei lati antipatici. Non sono il più simpatico della cucciolata, ma nemmeno il più stronzo. Indie – be’, l’indie è morto, forse non esiste più come definizione. Rap invece sì, e lo rivendico. Tra le altre due, preferirei si vedesse più il lato cazzone che quello stronzo.
C’è un no che hai detto e che poi hai rimpianto?
No, nel senso che non rimpiango nessuna scelta. Riflettendoci, però, magari so che avrei potuto prendere alcune decisioni meno di pancia, cioè prendermi più tempo per pensarci per poi magari dire comunque di no. A volte ho risposto no per difesa, per proteggermi. Per paura di mettermi in gioco. Altri no, invece, sono stati di rigidità. All’alba dei 40, come giustamente mi hai ricordato, spero di aver raggiunto più flessibilità, soprattutto nella carriera. Nella vita non è mai stata un problema.
La tua versione più vera, dicevamo. Sembri rappresentarla sulla cover di Sulla riva del fiume, dove sei sdraiato a fumartene una sul tettuccio di un’auto mentre intorno sale dell’acqua…
Ah, mi piace l’immagine che stia salendo.
Sta a dire che hai imparato a fregartene di più, a stare lì da solo?
Volevo trasmettere l’idea del vivere con leggerezza, anche quando l’acqua, a quanto pare, sta salendo. Non ha senso preoccuparsi delle cose che non possiamo controllare, l’età adulta mi ha insegnato anche questo. Volevo dare l’idea di questo approccio, più che di me come persona. È una bella descrizione, mi piace che arrivi questo messaggio. Un po’ è così, non mi sento sempre rappresentato dal mondo che mi circonda, a volte vorresti avere il potere di far andare le cose diversamente. Sicuramente ora ho più pazienza. È un’immagine che vuole raccontare la pazienza.
Torniamo a quella cosa di dire le cose precise, per come stanno. I giovani lo fanno, nella musica?
Hanno più vitalità, poi non so bene, il linguaggio cambia, anche gli stilemi del rap sono cambiati rispetto a quelli con cui sono cresciuto io. Ci sta che si dicano cose diverse, e che si dicano in un altro modo. Comunque c’è fermento, spero che chi è più giovane di me riesca a sovvertire quel meccanismo che ti dice che devi piacere a tutti, e va a finire che non piacciamo a noi stessi. Spero ci saranno ragazze e ragazzi che riusciranno a uscire da queste logiche e a non subire l’ansia da prestazione. Io l’ho subita.
Dicevamo il fallimento, l’essere sfigato…
Sono cresciuto con l’immagine dell’antieroe come positivo, come punto di arrivo. Vincere a tutti i costi, voler arrivare sempre più in alto… non è una logica che mi appartiene. Nel cinema e nella letteratura gli sfigati sono sempre andati forte. Mi è andata di culo, alla fine questa figura la rispecchio anche, posso interpretare la parte dello sfigato e l’ho fatto per quarant’anni, quindi funziona. Dalle sconfitte, in generale, dovremmo imparare tutti. Io, per esempio, dal mio primo Sanremo mi sono portata a casa più le cose che non sono andate bene. Mi sono preso il tempo per ragionarci, forse troppo, però l’ho fatto.
Chi è la tua sfigata, o il tuo sfigato preferito?
Oddio, ci provo, mi dimenticherò qualcuno: Steve Urkel in Otto sotto un tetto, lui era proprio l’emblema della sfiga. Sugli antieroi, Eddie Brock quando diventa Venom, leggevo sempre i suoi fumetti. In generale tutti gli autori che leggo e leggevo, Bukowski, Foster Wallace, nessuno di loro è un vincente. Califano in Un tempo piccolo, ecco, non è un vincente, il Samuele Bersani di Giudizi universali non lo è. Gli autori che amo hanno parlato delle loro sconfitte, in maniera profonda e poetica, dandovi valore. Ah, anche Mac Miller, che non era un vincente per quanto sia stato uno dei rapper più importanti della storia. Però Jay Z è uno che vince, non Mac Miller. Io alla fine tifo per il Toro, forse torna parte da lì. Ecco, il mio sfigato preferito è il toro rampante sullo stemma della squadra.
È per questo che hai scelto Califano per la serata delle cover?
Assolutamente sì. Quel pezzo è un esempi0 meraviglioso di quello che mi piacerebbe fare, essere poetici nel raccontare la propria vita e le sconfitte e le imperfezioni, non nascondersi. Mi sento rappresentato da quella canzone, è un punto d’arrivo. Se mai riuscissi a scrivere una canzone così, sarei contento.
I tuoi testi hanno poi quel gusto della parola, del gioco. Però dici cose anche crude, senza girarci attorno. Io ho dieci anni meno di te, e quando da più giovane andavo ai tuoi concerti c’era una sorta di romanticismo. Ti senti romantico?
Profondamente.
Perché sei del Toro.
Anche, sicuramente. Ma sai, secondo me approfondire un fallimento romantico è molto più interessante che parlare di un amore che non esiste, sempre perfetto. Io mi innamoro spesso, quando decido di fare una cosa la faccio nel miglior modo possibile, ed essere innamorato è la sensazione più bella del mondo. Difendo la sconfitta perché è romantica. Il grazie ma no grazie esiste in risposta a qualcosa, ma alla fine parla degli amori che falliscono. Voleva essere una risposta a quei racconti degli amori che durano per sempre. Mi annoiano. la frase più romantica in una canzone d’amore l’ha detta proprio a Sanremo Giovanni Truppi: il 10% è amore, il resto è stringere i denti (in Tuo padre, tua madre, Lucia, in gara a Sanremo nel 2022, nda).
Amore e società si uniscono sotto il segno della rivoluzione, che è un’idea romantica. Non ne parli tanto, però.
E che mi piace. È una parola che non uso come le altre, tipo politico e politica. Ha preso un’accezione strana al giorno d’oggi, ha una connotazione di classe. Ma io ci credo profondamente, è romantica la rivoluzione, senza dubbio. Siamo sempre qua. Tra l’altro le rivoluzioni finiscono male, di solito, se si tratta di veri rivoluzionari. Quindi, ancora una volta, ecco la sconfitta. Però ci credo, e credo che ci sia una rivoluzione a cui possiamo ambire: quella di noi stessi, essere sempre aperti al cambiamento.
Lo racconto anche nel pezzo, a me sta stretto il conservatorismo, questo fare muro senza fare niente, chi scende in piazza a manifestare solo perché non ha voglia di studiare. Mi annoia, la trovo la cosa più vecchia del mondo, anche se la dice un diciottenne. La rivoluzione si può fare, io cerco tutti i giorni di rivoluzionarmi un po’, di uscire dalle rigidità. Non lo dico mai, ma forse l’idea di rivoluzione è quella che mi ha mosso di più. Io la vorrei davvero fare, la rivoluzione, entrare nella categoria di chi ha rivoluzionato qualcosa.
Sei in una stanza con Giorgia Meloni e i politici della classe dirigente italiana: che cosa dici loro?
Vorrei innanzitutto conoscerli, fuori dai personaggi. Ormai siamo tutti personaggi, anche i politici si devono vendere come personaggi sui social, e questo annichilisce la profondità della politica. Detto ciò, vorrei capire quanto credono in quello che dicono, e in generale starei più in ascolto. Io parlo tanto, fiume di parole, citando i Jalisse, però quando non so una cosa mi piace ascoltare. Vorrei essere invisibile e ascoltare che cosa si dicono davvero.
Ti senti generazionale? Nei tuoi testi, come artista?
Mi piacerebbe. È una cosa bella, a cui ambisco. Non so se sono in grado. È il concetto di rappresentanza che mi piace. Torino, la mia città, la mia squadra, la sconfitta dei trentenni. Sono un Millennial ma non mi sento di rappresentare la generazione. Se mi dicessero che ci sono riuscito, ne sarei davvero contento.
Nei nostri pre-ascolti di Sanremo abbiamo definito Grazie ma no grazie come «un brano alla Willie Peyote».
Mi piace avere una firma leggibile. Credo voglia dire che ho portato il brano che ci si aspettava da me in questa direzione artistica. Poi non sono così univoco, credo di avere due/tre situazioni musicali che ricorrono nella mia carriera. Però sì, me l’accollo, è abbastanza un mio pezzo. È la mia versione allegra, la versione di Willie quando si alza con il piede giusto. Ecco, ora parlo di me in terza persona.
Senti, ma un feat che vorresti?
Sono tantissimi. Se te ne dovessi dire uno, Paolo Conte. Un altro molto piemontese, quando lo sento parlare sembra mio nonno, in modo virtuoso. Sa essere ironico, surreale, di una profondità infinita. Sempre di classe, quando poi alla fine fa i versi degli strumenti nelle canzoni.
Ti immagino con una routine, a Sanremo.
Sì, credo di sì. Ho fatto un bel mese di quasi detox, credo che berrò qualcosa prima di salire sul palco, nell’avvicinarmi al momento, mi devo sciogliere. Qualcosina anche dopo. Ma non lo so, quello che cerco è scappare dalla ripetizione, non fare mai due volte la stessa cosa. Spero ci sia il sole, di avere un buon balcone, bello, ampio. Svegliarmi e vedere il mare, fumarmi una sigaretta.
Non sembra male.
È un buon inizio.
Chiudiamo tornando a Torino: che cosa ti dà ora? Com’è cambiata?
Torino è tanto, non solo perché è casa. Poterla rappresentare è l’obiettivo di tutta la mia vita. La città mi ha insegnato l’etica del lavoro, lavorare mi piace. Poi è cambiata, si è spenta e si sta riaccendendo, il mondo non l’ha risparmiata dalla gentrificazione. Sento che c’è fermento, che sta tornando a essere peculiare nella sua proposta musicale. Essere di Torino un tempo voleva dire anche fare le cose in un certo modo, scrivere le cose in un certo modo. L’hardcore in Italia è nato a Torino, come gli Africa United, i Subsonica. Non siamo falsi e cortesi, diciamo le cose dritte, per come stanno. Quindi Torino per me sta tornando alla sua anima più vera. Io sto cercando di mettere in piedi alcune situazioni per i Murazzi. Il Covid non è stato semplice, ma la sto vedendo crescere. E l’ho ritrovata, come io mi sono ritrovato.