Poco dopo la vittoria dei Måneskin all’Eurovision Song Contest gli inglesi Wolf Alice hanno cambiato la loro immagine profilo su Twitter, sostituendo una loro fotografia con uno scatto del quartetto italiano. A parte l’hashtag #NewProfilePic non hanno scritto una parola, ma se da un lato è probabile che la mossa della band inglese sia stata una sorta di omaggio al rock’n’roll in ogni sua forma, dall’altro non sono in pochi ad aver commentato che i Måneskin sarebbero «i Wolf Alice italiani». In realtà al di là dei look da rocker (ma l’estetica di Damiano e soci è più vicina a quella dei Darkness) e del fatto che entrambe le formazioni sono composte da una donna e tre uomini, benché in ruoli diversi, non si può dimenticare che sotto il grande cappello del rock convivono universi sonori differenti. Nel corso della chiacchierata telefonica che abbiamo fatto prima dell’Eurovision Song Contest, la cantante e chitarrista Ellie Rowsell ha lasciato comunque intendere che non ama granché che i suoi Wolf Alice siano etichettati come una rock band tout court: «Non ci piace definirci così, anche se partiamo dal rock e dalle chitarre non ci facciamo problemi a infilare sonorità e melodie pop nei nostri pezzi».
Il nuovo album Blue Weekend, che uscirà domani, ne è la prova: dopo il secondo disco Visions of a Life, dove si viaggiava sui binari di un alternative rock caratterizzato da rimandi agli anni ’90, mix di grunge, shoegaze e garage punk, con questo terzo lavoro prodotto da Markus Dravs (Arcade Fire, Björk, Brian Eno, Florence + The Machine, Kings of Leon) il quartetto britannico compie un ulteriore passo avanti in termini di scrittura e il risultato è un disco eclettico, dalle melodie potenti, in grado di tenere assieme chitarre rabbiose e arpeggi, cori eterei, crescendo di archi e atmosfere rarefatte, la visceralità rock di un singolo come Smile e l’intensità emotiva di una ballad come The Last Man on Earth. E in cui risalta la versatilità di Rowsell, cantante capace di abbracciare più registri con uno stile che a tratti evoca Kate Bush, a tratti Karen O degli Yeah Yeah Yeahs, in certi passaggi Florence Welch e la Lana Del Rey di West Coast, in altri ancora Kathleen Hanna (Play the Greatest Hits è parecchio Bikini Kill). «Volevo cantare di più, non nascondermi dietro riff di chitarre rock, esaltare maggiormente le melodie», dice Rowsell, che al microfono non disdegna momentanee virate verso il rappato, ma che al contempo annovera tra i suoi ascolti gruppi vocali come Ronettes e Roches.
Ma perché quel titolo, Blue Weekend? «Mi piace il blu, è un bel colore, ma si associa anche alla tristezza ed è così che sono spesso i fine settimana, giorni che spesso catalizzano drammi e in cui può prenderti la malinconia». Tale suggestione è diventata il biglietto da visita di un disco affiorato da alti e bassi emotivi, che «parla di amore, di delusioni sentimentali, di disillusione: tematiche che trovo interessanti anche perché universali – spiega Rowsell –, perché si possono affrontare in tanti modi diversi e da più punti di vista, basti pensare a come sono trattate nell’arte, nella letteratura, nel cinema. Tutti possiamo immedesimarci nelle storie di amore e disamore, tutti abbiamo un’esperienza di qualche tipo in questo campo e credo sia qualcosa di affascinante».
Le 11 tracce sono nate in un Airbnb nel Somerset. «Avevamo già scritto i brani nel 2019, prima della pandemia, e li avevamo pure suonati e risuonati, avevamo provato molto il nuovo materiale, per cui all’inizio del 2020 eravamo praticamente pronti per entrare in studio a registrare. E lo abbiamo fatto, siamo andati agli ICP Studios di Bruxelles, peccato che nel giro di un mese sia successo il delirio, il Belgio ha chiuso i confini e tutto quel che sappiamo. A quel punto la tentazione di tornare a casa è stata forte, visto che non si capiva cosa stesse accadendo, ma alla fine abbiamo deciso di riprendere in mano i pezzi e di rifinirli. Ed è stata una fortuna ritrovarci in quella situazione tutti insieme, con le nostre canzoni su cui lavorare per un tempo maggiore di quello previsto. Siamo tornati un po’ all’atmosfera dei nostri esordi, abbiamo recuperato quell’entusiasmo suscitato semplicemente dall’idea di far parte di una band».
Per lanciare Blue Weekend i Wolf Alice hanno scelto di puntare in primis sul singolo The Last Man On Earth, traccia soft trainata dal pianoforte e con un finale orchestrale, accompagnata da un video diretto da Jordan Hemingway (Gucci, Raf Simons, Comme Des Garçons) che mette Roswell al centro della scena. «L’ho scritta in un momento in cui non avevo strumenti con me, è per questo che c’è quel piano che guida tutto, l’ho buttata giù al computer, senza chitarra, con le tastiere di Logic. In seguito sono arrivati gli archi, avevamo già pensato di inserirli in Vision of a Life, ma non avevamo avuto il coraggio. Negli ultimi anni abbiamo acquisito esperienza e questo ci ha resi più sicuri». E a proposito dei testi: «Adesso quando scrivo mi viene più facile aprirmi di più rispetto a qualche tempo fa, ho meno paura di espormi, mi chiedo meno se ciò che stiamo facendo piacerà al pubblico, penso meno alle aspettative che i fan possono nutrire nei nostri confronti: il riscontro che abbiamo ottenuto ha aiutato».
In effetti dal debutto discografico nel 2015 con Love Is Cool a oggi i Wolf Alice, originariamente un duo composto da Rowsell e Joff Oddie, hanno messo a segno un successo dopo l’altro: sia il primo sia il secondo disco sono volati al numero 2 della UK Album Charts; oltre al Mercury conquistato con Visions of a Life c’è stata una candidatura ai Grammy nel 2016 nella categoria Best Rock Performance per Moaning Lisa Smile. Senza contare l’acclamato live di cinque anni fa sul Pyramid Stage di Glastonbury (di cui lo scorso 22 maggio la band ha aperto l’edizione in streaming), l’ultimo tour mondiale di quasi 200 date, i sold out all’Alexandra Palace e alla Brixton Academy di Londra. E il documentario On the Road a loro dedicato da Michael Winterbottom, il regista di 24 Hour Party People, film-cult sulla Factory Records. Ora c’è un tour in programma, ma meglio non esaltarsi troppo e tenere le dita incrociate.
«La pandemia ha dimostrato come suonare in un gruppo sia più complicato che portare avanti una carriera solista, è tutto moltiplicato», osserva Rowsell. «In quest’anno ho pensato molto a cosa significa per me stare su un palco. E una delle cose principali, oltre al contatto con la folla e alla soddisfazione che ti dà vedere quanto la tua musica possa regalare dei bei momenti alle persone, è la sensazione di presenza a te stesso che provi durante i concerti, qualcosa di non così distante dalla meditazione».
Classe 1992, Ellie da bambina si dilettava a scrivere brevi storie e poesie. Alla musica si è avvicinata verso i 14 anni, già allora sognava di avere un gruppo tutto suo e di suonare in giro per il mondo. Un sogno diverso da quello della maggior parte delle sue coetanee, ma ispirato da artiste donne come Kimya Dawson dei Moldy Peaches e la già citata Karen O. Adesso è lei a essere un esempio per le ragazzine che vogliono imbracciare una chitarra e la battaglia per la rappresentanza femminile e contro sessismo e maschilismo le sta a cuore. Se in passato le è capitato di usare i social per invitare delle ragazze a suonare con lei sul palco, lo scorso febbraio l’abbiamo vista prendere le difese di Evan Rachel Wood contro Marilyn Manson, raccontare di un festival durante il quale il cantante di Antichrist Superstar avrebbe cercato di filmarla sotto la gonna con la sua GoPro senza che nessuno aprisse bocca e dichiarare che «le donne devono sentirsi al sicuro in questo mondo dominato dagli uomini che è l’industria musicale».
In Blue Weekend c’è dell’altro: il singolo Smile è una reazione all’orrore con cui molti hanno accolto il verso di Yuk Foo, canzone del 2017, “I wanna fuck all the people I meet”. «Molti hanno amato quella canzone, ma mi ha fatto ridere che tanti, al contrario, l’abbiano trovata disturbante. Come se fosse disgustoso che una donna faccia sesso e non si faccia problemi a parlarne».
Da questo punto di vista il testo di Smile è un manifesto: “I am what I am and I’m good at it, and you don’t like me, well, that isn’t fucking relevant”; “did you think I was a puppet on strings?”. «Noi donne viviamo un conflitto, vogliamo essere noi stesse in una società che ci insegna che dobbiamo essere sensuali, attraenti. Non c’è una vera e propria soluzione, sicuramente meglio non lasciarci condizionare e dedicarsi anima e corpo a ciò che davvero conta, nel mio caso la musica».
Una fonte d’ispirazione sono i libri: il nome Wolf Alice è legato alla raccolta di racconti tra il fiabesco e il noir La camera di sangue di Angela Carter, una delle scrittrici preferite della 28enne Ellie è Margaret Atwood e The Last Man On Earth, che parla anche della magia della letteratura (“every book you take and you dust off from the shelf has lines between lines between lines that you read about yourself”), prende spunto dal romanzo di fantascienza Ghiaccio-nove (1963) dell’americano Kurt Vonnegut, su uno scrittore impegnato nella stesura di un libro, Il giorno in cui il mondo finì, concepito come resoconto di ciò che fecero alcuni scienziati responsabili dell’invenzione della bomba atomica il 6 agosto 1945, il giorno dell’attacco atomico a Hiroshima.
«L’ho riletto di recente, è bellissimo, benché distopico, del resto anche l’epoca che stiamo vivendo lo è», osserva Rowsell. La canzone tratta «dell’arroganza degli esseri umani»: “Who are you to ask for anything more?”, recita l’incipit, chi sei tu per chiedere di più? Le domandiamo che cosa vorrebbe lei con sé se fosse l’ultima donna sulla Terra, ci pensa un attimo e poi, ridendo, risponde: «Un fidanzato».