Roger Daltrey arriva ai Kore Studios, vicino a Shepherd’s Bush, Londra. Apre la porta e cerca Yungblud. «È qui?», chiede il frontman degli Who. Sì, c’è. «Un giovane musicista puntuale, mai vista prima una cosa del genere», replica suscitando le risate dei presenti.
Il posto è stato scelto perché a Daltrey è famigliare, avendo inciso lì in passato, e un po’ per sua comodità: il settantottenne, infatti, vive vicino a Kore, appena fuori Londra. Yungblud è invece arrivato in aereo da Parigi, dove si è esibito ieri sera e presto salirà su un volo per Los Angeles.
Daltrey è uno dei grandi frontman del rock inglese, il venticinquenne Dominic Harrison è il volto nuovo del pop-rock britannico. È la prima volta che s’incontrano di persona. Ognuno interpreta la chiacchierata a modo suo: Daltrey è genuinamente curioso di sapere come Yungblud si rapporta con l’industria musicale moderna e i social media, che il cantante degli Who trova sgradevoli, e ha delle domande per conto delle due nipoti che sono grandi fan del ragazzo. La nuova icona di stile del Regno Unito ha pubblicato l’album omonimo a settembre ed è in adorazione di fronte a Daltrey. È cresciuto con la sua musica, l’ascoltavano il padre e il nonno.
Daltrey: Mi spiace per i giovani d’oggi. Una volta c’era molto più stile.
Yungblud: Mi viene in mente quando stavo cercando di scegliere un look. Guardavo voi, i Clash e le grafiche di Jamie Reed per i Sex Pistols e mi chiedevo: come posso far arrivare questa roba ai ragazzi di oggi? Tutti quelli del giro della musica indossavano T-shirt e blue jeans.
Daltrey: Ti confesso che quando Axl [Rose] è uscito su un palco per la prima volta in calzoncini e maglietta abbiamo ghignato come matti.
Yungblud: Vorrei che la gente avesse un’identità. All’epoca c’erano molte sottoculture.
Daltrey: Ciclicamente arrivano momenti aridi, no? Periodi vuoti.
Yungblud: Ed è il motivo per cui non vedevo l’ora di parlare con te: tu c’eri quando è arrivata la prima ondata rock.
Daltrey: Ne ho vissuto solo la coda. Avevo 13 anni quando ho sentito Little Richard ed Elvis. La musica di Little Richard ce l’ho ancora in testa: lui era enorme. Tanti parlano di Elvis e degli altri e Little Richard viene quasi dimenticato. Ma chiedi a Paul McCartney, ti dirà che è da Little Richard che i Beatles hanno tratto ispirazione.
Yungblud: È pazzesco… per me voi siete stati i primi, perché sono inglese. Sì, conoscevo Elvis, Little Richard e Chuck Berry perché mio papà e mio nonno mi dicevano «è iniziato tutto con loro», ma mi sembrava roba vecchia.
Daltrey: Pete Townshend ha fatto leva sul sentire dei giovani dell’epoca. C’era un sacco di aggressività repressa che è tipica della gioventù e occorre canalizzarla in modo creativo. Prima di noi, ovviamente, tutto ciò era stato canalizzato nella Seconda guerra mondiale, ma nessuno voleva ripetere l’esperienza, giusto? Per cui, grazie a Dio, è arrivato il rock. Townshend ha capito che la moda e i tempi stavano cambiando. Ma prima c’è stato uno strano interregno, il periodo dei primi Rolling Stones e del look alla Beatles. Poi all’improvviso la nuova moda mod è arrivata da due zone nel sud di Londra, Lewisham e Catford. Invece di girare con motociclette e giacche lunghe, come i teddy boys, i ragazzi avevano i capelli cortissimi, bei vestiti e cappotti a tre quarti. Me lo ricordo benissimo, s’è capito subito che sarebbe stato un nuovo movimento.
Ho trovato il tuo nuovo album molto stimolante. Mi piace il modo in cui usi i cori del pubblico nel mix. Come lo fai?
Yungblud: In realtà siamo io e i miei amici. Ci siamo piazzati in una decina davanti a un microfono. L’idea è: canta forte, canta piano, canta come un ubriaco, canta stonato. In un concerto, metà del pubblico non sa cantare. Ed è proprio questo che ti dà la sensazione di ascoltare qualcosa di potente.
Daltrey: Tanta musica, negli ultimi dieci anni, ha ignorato le potenzialità della voce: parlo dei grandi prodotti mainstream, quelli che vendono di brutto. Penso alle armonie dei Beach Boys. A noi sembravano alieni per l’immagine che avevano, erano quattro tizi normali in costume da bagno. Ai nostri occhi non significavano nulla, a parte Keith Moon, ma lui viveva su un altro pianeta. Per tutto il tempo che è stato con gli Who ha sognato di diventare il batterista dei Beach Boys, aspettava solo che Dennis Wilson schiattasse per prenderne il posto. I pezzi dei Beach Boys, con le armonie e tutte quelle cose lì, ti sollevano lo spirito. Ed è una cosa di cui abbiamo un gran bisogno al giorno d’oggi. Ci sono in giro troppe voci soliste che interpretano testi mediocri.
Yungblud: Quando sono arrivato [a Londra da Doncaster] ho iniziato a fare concerti e per un po’ ho frequentato la scuola d’arte, ma ero completamente perso… poi ho messo su Internet un video e un giovane talent scout l’ha visto. È andato alla Virgin e mi ha detto: «Bene, ti facciamo fare The Voice». E io: «Col cazzo, no».
Daltrey: Grazie al cielo. Mi volevano come giudice, ma non ho accettato. Non voglio giudicare nessun cantante. Qualunque cosa tu dica, finisci per demoralizzarli.
Yungblud: Ricordo che mi hanno detto: «Ti faremo partecipare a The Voice e se vinci ti faremo un contratto. Ma non puoi cantare di politica». Questo perché avevo iniziato a scrivere di sessualità, moda, questioni di genere. Ho rifiutato. E se dici no a una major poi ti trovi a pensare di non riuscire a farcela. Così ho preso l’iPhone e ho cominciato a postare: «Ecco cosa penso del mondo». La gente ha risposto e i miei follower da 1000 sono diventati 10 mila e poi 20 mila…
Daltrey: Io mi tengo alla larga da Internet. Temo di avere una bruttissima opinione dei social media. Credo sia peggiorato tutto da quando sono comparsi i like su Facebook. Ormai la gente inizia a suonare per raccogliere i like: diventa una questione di ego e l’ego ti distrugge. Per cui non ci vado proprio. Non m’importa cosa si dice di me, fate quel che volete. Però penso: tu ci hai costruito la tua carriera. Ti capita mai di non dormirci la notte? Questa faccenda dei like ti preoccupa?
Yungblud: È una cosa che ho sperimentato solo dopo che, tra virgolette, ce l’avevo fatta. Ero stufo di vedere gente che si faceva foto sulla spiaggia e che fingeva di avere una vita perfetta. Volevo fare l’esatto contrario.
Daltrey: Capisco il tuo punto, ma la mia domanda è: ti tange?
Yungblud: No davvero. Però per un certo periodo l’ha fatto.
Daltrey: Per cui, in una certa misura, ha avuto un effetto su di te. Chiedo perché tante persone non sono determinate quanto te, a riguardo di dove vogliono andare, e cose del genere le demoliscono… Tu parli di Yungblud come se fosse un’entità diversa da te. Ma chi è il vero Dom, sotto sotto? È una persona insicura?
Yungblud: Sono uno disinvoltamente insicuro.
Daltrey: Sembri me alla tua età. Ti sei trovato sotto ai riflettori e tutti si aspettano che tu dia interviste meravigliose. Ma a volte non ce la fai, vero? Perché in fondo ce la si fa sempre sotto.
Yungblud: Questa è una cosa che il mondo dovrebbe sapere. Ogni volta che iniziano un’intervista, specialmente se importante, tutte le rockstar del mondo pensano: «Oh merda!».
Daltrey: Io non sono un giornalista, ma mi intriga il modo in cui i più giovani stanno dando una nuova forma all’industria musicale. Spero che l’industria lavori davvero al tuo servizio, perché tendenzialmente vedo tanta gente che viene sfruttata economicamente: persone che collezionano Dio solo sa quanti ascolti in streaming dei brani che hanno scritto e poi si vedono arrivare un assegno da 10 sterline. È un furto enorme.
Yungblud: Sono d’accordo. In questo mondo di social media e mode, ci dimentichiamo della cultura. Siamo diventati passivi. Mio papà mi ha portato a vedervi alla Sheffield Arena che avevo circa 9 anni…
Daltrey: Quindi più o meno 4 anni fa (ride). Facevamo Quadrophenia?
Yungblud: Sì e alla batteria c’era Zak Starkey. Papà m’ha portato a mangiare un curry e tutti quelli che erano in zona, anche nel ristorante dopo il concerto, avevano addosso un cazzo di parka, così ho iniziato a desiderarne uno. Anche a quell’età credo di avere capito che questa è una cosa che manca alla musica di oggi. Ed è per questo che metto i calzini rosa. Li metto solo rosa perché mi sono detto: «Cosa potrebbero indossare le persone per sentirsi come me?». Volevo che Yungblud fosse la stessa cosa per Charlie in Olanda, Freddie in Texas e Sarah in Australia.
C’è qualcosa di molto diverso fa il rock americano e inglese?
Daltrey: Oh, il rock americano è sempre radicato in Chuck Berry e nel blues, molto più della musica inglese.
Yungblud: Credo che la musica inglese sia più incentrata sul feeling. Se vado in studio in America, tutto dev’essere perfetto, mentre qui a casa posso essere un filo fuori tonalità ed è tutto più alla mano.
Daltrey: Dimmi, come ti sei trovato coi produttori americani? Nell’ultimo album che abbiamo fatto, avevamo un produttore americano di cui non farò il nome e non riuscivo a lavorare con lui perché voleva il controllo su tutto. Non funziona così con la musica. Arriva da dentro. E se il tempo non è perfetto, amen.
Yungblud: Penso che in America i musicisti siano molto più tecnici e migliori. Ma quando osservi i musicisti inglesi, capisci che loro sentono davvero ciò che fanno.
Roger, c’è qualcosa nella tua carriera che non ti ha fatto dormire la notte?
Daltrey: Oh, un sacco di cose. Ho un cervello sempre attivo. È difficile da gestire, soprattutto per un cantante. La gente non capisce che i cantanti, a differenza dei chitarristi, non possono cambiare le corde. Lo strumento sei tu stesso. Uno dei pochi consigli che mi sento di darti, Dom, è di non cantare mai quando sei raffreddato. È importante reidratarti quando scendi dal palco. Quando fa troppo caldo, rischi di cuocerti il cervello. A Parigi abbiamo fatto un concerto e si toccavano i 45 gradi fra il pubblico. C’era anche Liam Gallagher fra il pubblico e se ne stava lì, con una cacchio di giacca a vento addosso. Lui è il più cool di tutti. Mi piace tantissimo. L’hai mai incontrato?
Yungblud: No, ma mi piacciono la sua band e la sua sfrontatezza. È uno tosto.
Daltrey: Lui è forte e mi piacerebbe che gli Oasis tornassero insieme. Liam, comunque, si è davvero conquistato una nicchia tutta per sé, ora, e mi piace. Credo sia fantastico. È onestissimo e non ha paura di dire ciò che pensa. Come te: un po’ me lo ricordi. Però lui arriva dall’altra parte del Paese. Io ho una figlia in Yorkshire, di Huddersfield.
Yungblud: Il mio migliore amico d’infanzia, Elliot, è di Huddersfield.
Daltrey: Adoro l’accento dello Yorkshire. Amo gli accenti inglesi. Non perdiamoli, per favore.
Tradotto da Rolling Stone US.