Nel videoclip di Lost, primo estratto dal nuovo disco Arkhon di Zola Jesus, vediamo la cantante e songwriter americana camminare sulla neve tra le formazioni rocciose della Cappadocia, per poi rintanarsi in una grotta. “Nei miei boschi ho trovato un luogo dove rinunciare a tutto quel che ho”, recita il testo della canzone. Sono solo suggestioni veicolate da immagini e parole, ma dicono molto di ciò che la 33enne sembra voler esprimere in questo suo sesto album targato Sacred Bones: il bisogno di un rifugio dove prendersi cura di sé e sfuggire alle brutture del mondo.
«In greco antico il termine arkhon indica qualcuno che sta al comando, un governante, un sovrano», spiega lei. «Ma per il disco mi sono rifatta al significato che questa parola ha nello gnosticismo cristiano, dove il riferimento è alle forze malevole che operano nell’universo offuscando e corrompendo l’umanità, tenendola lontana dalla sua natura buona. Che è ciò che vedo io oggi: penso che stiamo vivendo un’epoca molto “arconica”, in cui il male è molto diffuso e si oppone alla gentilezza e alla solidarietà».
Come biasimarla? Tra pandemia, guerra in Ucraina, gli altri conflitti più o meno dimenticati, inflazione, crisi climatica, siccità e carestia, c’è poco da stare tranquilli e di certo non ci si aspetta che lo sia Nika Danilova, artista che sin dall’esordio con The Spoils, nel 2009, non ha mai nascosto che la cupezza della sua musica si lega a inquietudini e tormenti interiori, né si è mai tirata indietro nel ricordare il bullismo subìto sui banchi di scuola quando era una ragazzina ritenuta “strana”. Senza contare che già in occasione del suo precedente lavoro Okovi, cinque anni fa, confessava di essersi sentita a lungo depressa e di essere tornata a vivere tra i boschi del Wisconsin per ritrovare se stessa.
«Ti parlo da qui, adesso», dice in collegamento su Zoom. «Ho viaggiato così tanto tra i 20 e i 25 anni, sempre in tour, sballottata da un posto all’altro, che a un certo punto ho sentito il bisogno di trovarmi un luogo che mi desse stabilità. Inizialmente ho pensato a Los Angeles, poi a Seattle, ma era tutto talmente costoso che mi sono detta che la scelta migliore non poteva che essere quella di tornare dove sono cresciuta, vicino alla mia famiglia. Così eccomi in questa casa che ho fatto costruire su un terreno di nostra proprietà, in mezzo alla foresta. Cosa importante, per me; sono una persona molto sensibile, mi sento facilmente sopraffatta dalle situazioni in cui c’è troppa gente, troppo movimento; il bosco è un luogo neutro, dove posso rilassarmi e ascoltare la mia voce interiore senza pressioni».
È in questo contesto che è affiorato Arkhon, album che nasce, sì, da uno smarrimento, ma che sviscera anche un desiderio di rinascita che Zola Jesus ha voluto nutrire il più possibile chiamando accanto a sé vari complici tra cui il produttore Randall Dunn, già dietro al mixer per Sunn O))) e al fianco del compianto compositore islandese Jóhann Jóhannsson per la colonna sonora del film Mandy. «Non volevo più decidere tutto io come in passato, volevo che altre persone interpretassero i miei brani, in questo senso aprirmi alla collaborazione è stato illuminante. Le canzoni erano già scritte, ma erano così personali e ognuna con una propria vulnerabilità che non riuscivo a vederle dal di fuori, da una prospettiva diversa dalla mia, tale da permettermi di svilupparle con il giusto sound. Ero in un vicolo cieco, mi serviva qualcuno accanto che sapesse tradurre quell’intensità. Ho chiamato Randall perché è un amico, ci siamo conosciuti nel 2017-2018 ed era scattata subito una sintonia anche a livello spirituale. Siamo entrambi curiosi, alla ricerca del senso delle cose: sapevo di potermi fidare».
Importante anche il contributo di Matt Chamberlain, batterista e percussionista noto per il suo lavoro con Fiona Apple, Bob Dylan e David Bowie, che in Arkhon ha infilato dei ritmi imprevedibili, dinamici, a tratti dal sapore tribale, a tratti pulsanti, nervosi, semplicemente seducenti nelle loro storture. «L’idea era di evitare il disco fatto al computer, la batteria elettronica, i ritmi programmati». Il risultato è un album a metà strada tra la prima Zola Jesus, quella più dark che combinava atmosfere gothic, elettronica e industrial ispirandosi ai Joy Division come ai Throbbing Gristle, a Lydia Lunch come agli Swans e a The Knife, e il synth pop decisamente più pulito messo in campo con Taiga, disco pubblicato nel 2014 per la Mute, forse anche con l’idea di accantonare una dose di ruvidezza per ampliare la platea di ascoltatori. Il mood è mutevole, si passa da un brano voce e piano come Desire alla sontuosità sinfonica di un pezzo come Dead and Gone, arricchito dall’arrangiamento d’archi della violinista Louise Woodward. A legare il tutto è la voce di Nika, che oltre a essere fan di Diamanda Galás ha studiato lirica e si sente, specie quando spinge sul lato drammatico delle sue canzoni, e che nella traccia di chiusura Do That Anymore è immersa in un mare di vibrazioni eteree e riverberi che porta alla mente i Cocteau Twins ed Elizabeth Fraser.
«Lavorare con altri mi ha permesso di dare un afflato universale alla mia musica e di esplorare modi per me nuovi di raccontare le mie storie. In Arkhon, in particolare, parlo di una serie di delusioni sia sentimentali, sia professionali che ho dovuto affrontare più o meno di recente. Diverse persone cui ero molto legata sono sparite dalla mia vita quasi da un giorno all’altro e questo mi ha fatto soffrire, ho dovuto risollevarmi. L’album ripercorre questo processo di guarigione, di ricostruzione, che mi ha permesso di capire che tutto il dolore che ho dovuto attraversare ha un significato. Ci sono stati giorni in cui non sapevo davvero come sarei arrivata a sera, avevo così tanto caos attorno… È stato un periodo complesso e l’ho buttato tutto nella musica».
A questo si sono aggiunti la delusione per non aver potuto vedere il suo candidato democratico favorito, Bernie Sanders, correre alle presidenziali americane del 2020, la tristezza per l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin («i miei nonni emigrarono negli Stati Uniti da Odessa, mi si spezza il cuore nel vedere quanto sta accadendo»), la disillusione per una società in cui democrazia e uguaglianza in termini di opportunità e diritti non sono esattamente sinonimi e in cui, anzi, la forbice tra ricchi e poveri si sta allargando sempre più. «Guarda Elon Musk», osserva Zola Jesus, che con il fondatore di Tesla e SpaceX ha avuto uno scambio polemico su Twitter, «per me è un oligarca e io non ho alcun rispetto per gli oligarchi, non credo affatto che siano la nostra opzione per salvare il pianeta. I miliardari pretendono solo di essere i re del mondo e tendono a silenziare tutto ciò che contrasta la loro possibilità di accumulare denaro, le loro aziende, il loro potere. È questo che fanno, perché dovrei considerarli miei amici? Come si fa a credere che si preoccupino di noi? Non si persegue il bene dell’umanità badando alle proprie azioni in borsa».
C’è stata anche una polemica con Daniel Ek, CEO di Spotify: quando questi, un paio di estati fa, dichiarò, tra le altre cose, che per gli artisti «non è abbastanza fare un disco ogni 3-4 anni», Zola Jesus rispose con un messaggio sui social: «È evidente che il miliardario Ek non ha mai fatto musica o arte di qualsiasi genere. Si rifiuta di capire che c’è differenza tra merce e arte. Il progresso della cultura ne risentirà».
«È il mio istinto anti-autoritario a farmi parlare, dovrei starmene zitta, non sempre ci riesco», commenta oggi la songwriter. «Il punto, comunque, è lo stesso che con Musk: Spotify monopolizza il mercato musicale e usa questo monopolio per dettare regole su quale sarebbe la musica che vale e quale no. Ovviamente non è solo la singola piattaforma il problema, il problema è un sistema capitalista basato sullo sfruttamento di molti in nome del profitto di pochi. Un tempo anche i musicisti non così famosi riuscivano a vivere di musica e questo perché si vendevano i dischi. Ma perché si vendevano i dischi? Perché non c’era qualcuno che te li dava gratis o che ti regalava praticamente tutta la musica esistente sulla faccia della terra per 10 euro al mese, oltretutto lasciando a chi quella musica la fa le briciole. Io intanto mi sono creata un profilo su Patreon, ma quando ho domandato al mio management se fosse possibile non pubblicare Arkhon su Spotify, la risposta è stata che sarebbe stato un suicidio. È frustrante, come tanti sono incastrata in un paradigma che non condivido, ma non voglio rassegnarmi, bisogna ridare dignità e valore alla musica».