Musicalmente, ci troviamo in un periodo di limbo. Molti artisti preferiscono conservare i loro nuovi album per tempi migliori, in cui si potrà tornare ad assembrarci sotto i palchi, e il risultato è che il mercato è invaso da prodotti per così dire “minori” – mixtape, outtake, playlist, raccolte, EP, repack e chi più ne ha, più ne metta – che spesso lasciano in bocca il sapore un po’ stopposo e insipido di quella galletta di riso che ti mangi quando a metà pomeriggio hai un buco nello stomaco che vuoi tappare con qualcosa, ma che preferiresti di gran lunga sostituire con una bella fetta di Sacher, se solo potessi. Ecco: Be Right Back di Jorja Smith è la fetta di Sacher di cui tutti noi sentivamo il bisogno. Una porzione non particolarmente abbondante, considerando che si tratta di un EP da otto tracce che funge da ponte tra il suo album di debutto Lost & Found del 2018 e il suo prossimo lavoro, ma abbastanza per placare non solo la fame, ma soprattutto la voglia di qualcosa di buono.
Anche se in Italia non è ancora particolarmente conosciuta (ma lo sarà presto, anche solo per il fatto che la sua straordinaria bellezza l’ha già resa una beniamina dei vari brand internazionali di moda e beauty), Jorja Smith è senz’altro destinata a diventare una delle prossime grandi star degli anni ’20. Quasi nessuna possiede lo stesso mix di talento, carisma, accessibilità, poliedricità, grazia e cazzimma che riesce a irradiare sia dalla sua persona che dalle sue canzoni.
Classe 1997, nasce nella profonda provincia delle Midlands inglesi da madre britannica e padre giamaicano, che faceva parte di un gruppo neo soul prima della sua nascita. Ha cominciato a studiare musica fin da bambina, incoraggiata dai genitori, vincendo una borsa di studio dietro l’altra. Ma naturalmente a interessare una ragazzina di 15 anni non erano certo l’oboe o il canto lirico: le sue ossessioni erano l’hip hop, l’R&B, il reggae e soprattutto i testi di Amy Winehouse, l’unica che sembrava riuscire a incarnare una rivoluzione stilistica e linguistica che la rappresentasse davvero. E questo è il poco che si sa di lei, perché è molto riservata: nelle interviste non si sbilancia troppo, nella vita privata adora passare inosservata, dice che la cosa più bella del lockdown è stata poter uscire finalmente a fare la spesa perché con la mascherina nessuno si accorgeva di lei. Un’antidiva per eccellenza, il che dà ancora più forza alle sue canzoni.
A 18 anni, Jorja prende un treno per Londra e comincia a mantenersi facendo la barista, mentre continua a scrivere canzoni che sono un po’ la versione 2.0 di quelle che ai tempi avevano reso famosa Amy: storie di amori adolescenziali, di vita quotidiana, di scoperta di se stessa, ma con un mix di ritmi caraibici, jazz, R&B e una voce carica di phatos senza mai essere troppo sforzata. Niente vocalizzi esagerati alla Beyoncé o sfoggio di ugole potentissime alla Adele, per intenderci, ma a volte un pizzico di sexy ironia alla Rihanna, che non guasta, su una ragazza di appena 21 anni che soffre per amore ma non ci tiene certo a tagliarsi le vene per un uomo.
A farle da mentore è inizialmente Maverick Sabre, rapper, cantante e produttore famoso soprattutto in patria, ma nel giro di pochissimo, dopo l’uscita di Lost & Found del 2018 praticamente chiunque comincia ad accorgersi di lei: Drake la ospita sul palco in un suo concerto, apre le date di Bruno Mars, duetta con Kali Uchis, Stormzy, Kendrick Lamar, Burna Boy, Popcaan, riceve la nomination ai Grammy come Best New Artist e vince due Brit Awards. Ma anziché sfruttare l’onda del momento per pubblicare un nuovo album, preferisce procedere un singolo dopo l’altro, fino alla sorpresa di questo Be Right Back, che preannuncia il suo imminente ritorno.
Intendiamoci: Be Right Back non è una rivoluzione, ma è un ottimo biglietto da visita per chi ancora non conosce Jorja Smith e vuole imparare a familiarizzare con il suo sound prima dell’uscita del suo secondo album, che sicuramente la porterà ben più lontano di quanto sia arrivata finora. In otto tracce c’è tutto il suo mondo; le lontane reminescenze di UK garage di Addicted, la struggente malinconia di Gone, le ritmiche caraibiche di Bussdown o Diggin’, la delicatezza di Burn. Ce n’è abbastanza per farci venire voglia di recuperare i capitoli precedenti e attendere con ansia quelli successivi. E per ispirare qualcun altro a darci dei degni riempitivi in attesa degli album veri e propri, si spera.