Un maestro senza vita è come una nuvola senza pioggia, dice un antico proverbio. Nel caso di Klaus Schulze nulla è più vero di questa frase. Con la sua dipartita diciamo addio a una pioggia di sintetizzatori, a risonanze cosmiche, al vero e solo bagno di suono possibile di cui lui è stato assoluto pioniere.
Oggi trovare qualcuno che armeggi con sintetizzatori dai pad d’atmosfera lunghissimi e che usi sequencer ipnotici è quasi la prassi, ma nei primi anni ’70 fu proprio Schulze a contribuire a porre le basi della piramide della musica elettronica mondiale. Quelli che ascoltiamo oggi sono tutti suoi allievi: che sia ambient, trance, sperimentale, drone o techno, Schulze l’aveva prevista in un tempo in cui pensare a una musica artificiale era quasi folle. E, infatti, nel primo disco Irrlicht, anno 1971, Schulze non ha ancora a disposizione sintetizzatori e macchinari all’altezza e si “limita” a filtrare con un amplificatore danneggiato registrazioni d’orchestra in reverse in modo tale da farla suonare come un synth, e suona un organo rotto. Diventa alfiere del lo-fi come della drone music e allo stesso momento fa sue tecniche di musica concreta che sfoceranno in un certo noise psichedelico e reel to reel. Insomma, sdogana dei modus operandi prima di allora relegati alla musica “colta” verso una fruizione pop.
Inquieto quando si tratta di condividere le sue visioni, tenterà con scarso successo di far parte di alcune band: e che band. Dal ’69 al ’70 milita come batterista nei Tangerine Dream, con i quali registra il debutto Electronic Meditation. Li abbandona e si unisce a Manuel Göttsching per suonare dietro le pelli per gli Ash Ra Tempel, altro gruppo fondamentale del krautrock. Dopo solo due album abbandona anche loro per il supergruppo Cosmic Jokers, autori tra l’altro di un incredibile debutto, per poi confluire nei Go, altra all star band con Al Di Meola, Steve Winwood e Stomu Yamashta.
In tutti questi casi Schulze partecipa quasi fosse un divertissement, essendo concentrato per lo più nella carriera solista e quindi nello sviluppo del suo stile peculiare che poi si trasformerà in un genere ben preciso: la kosmische music. Accordi dilatatissimi, minimali, a volte ottenuti con l’ausilio di pietre poggiate sui tasti, arpeggiatori che sembrano catturare lo spirito della musica classica trasferendolo nel silicio, ispirati dalle teorie wagneriane della melodia infinita (di cui Klaus era grande fan, non dimentichiamo il disco Timewind del 1975, un concept sul compositore tedesco). Ma la cosa forse principale, e peculiare nell’approccio musicale di Schulze, è l’animismo applicato alla macchina; lo spirito che alberga in tutte le cose, l’energia che muove i pianeti e la vita sulla terra è la stessa che percorre i fili dei sintetizzatori ed è, in fondo, la forza della musica. Nel 1981 dice: «Ho diciotto sintetizzatori sul palco e non sono mai fuori tono perché li amo veramente. Parlo con loro, e se per caso qualcuno mi procura dei problemi gli dico: “Ok, non ti suonerò stasera… Se c’è qualcosa che non ti piace, non insisterò. Domani si vedrà”. È davvero semplice come sembra. Devi riflettere sul fatto che ci sono duemila anni di evoluzione intellettuale umana dentro queste macchine. Duemila anni di successi e sconfitte. Loro si raffreddano e si riscaldano proprio come noi».
Questa visione che dà agli strumenti elettronici la capacità di godere o meno nel suonare e nell’essere suonati, e quindi in un certo senso questo riscontrarne un nucleo animale nel profondo della loro scorza di metallo, trova il suo picco nella colonna sonora di Body Love, un film diretto dal “re del porno” Lasse Braun che nella musica di Schulze trova un perfetto scenario che lega corpo e spirito, uno sviaggione orgasmico sulle onde sonore dei fluidi umani ma anche di quelli cerebrali che inducono al sogno. Anche qui il grande coraggio di un prime mover lo porta a pubblicare per primo in assoluto lo score di un film pornografico che è anche – ancora più singolare – la sua prima colonna sonora in assoluto. Perché ovviamente una musica come quella di Schulze non può non essere adatta al grande schermo. Sono rade le sue prove in questo senso, ma sempre lanciate verso esperimenti sonori e collaudi di macchinari all’avanguardia, addirittura esperimenti psichici (uno su tutti, lo score del thriller Angst, scritto senza aver visto neanche un centimetro di pellicola, ma solo regolandosi sulla sceneggiatura).
Altra grande caratteristica è il fatto di non porre argini alla propria urgenza non tanto creativa quanto comunicativa (in questo gente come Merzbow con una sterminata discografia gli deve molto). Ha pubblicato ben 60 titoli, lavori che presi singolarmente oscillano tra prove eccelse, registrazioni modeste o capolavori a metà, ma è proprio nel complesso dell’opera che va giudicato il lavoro di Schulze. Immaginando tutti questi dischi come un’unica grande suite spaziale, ascoltandoli uno dopo l’altro si sente un percorso stellare, quasi uno stargate che ci porta al suono della nostra coscienza, in uno spazio sonoro senza un sopra né un sotto: sensazione che la sua musica esplora come in un perenne stato di pre-morte, o meglio pre-vita.
Fino alla fine dei suoi giorni ha mirato a perfezionale la sua arte, a levigare i suoi marmi musicali e le sue formule, fino a renderli sempre più precisi, come un pittore che a forza di tele asciuga il proprio messaggio all’essenziale, lo pulisce e lo rende nitido come una pietra preziosa. Esempio di questo è il suo disco che dovrebbe uscire a giugno, Deus Arrakis, un incredibile suono solare, un addentrarsi nella musica oscillante e avvolgente della palla di fuoco che nutre la vita sul pianeta. Ma il musicista non disdegna certo un ponte tra cosmo e terra, conscio del fatto che una condizione ispira l’ altra: ecco quindi entrare il gioco il suo alter ego Richard Wahnfried. Con questo nome produce dei dischi dal piglio più commerciale, a tutti gli effetti precursore della techno e della seconda summer of love. Qui davvero entra in gioco il ballo, che in Schulze è un fenomeno percepito solo dalla mente, più un pulsare in cui il ritmo si muove e muta come il magma nei vulcani. Nei dischi a nome Wahnfried invece tutto è calibrato alla perfezione per parlare al ballerino di domani, quello che riuscirà a muovere i piedi anche con l’IDM di Aphex Twin, illustre discepolo del nostro (Schulze con l’album Dig It del 1980 fu uno dei primissimi a usare il computer per comporre).
Mente e corpo per Klaus Schulze sono territori da esplorare musicalmente, cercando di scatenare reazioni a catena, così come nei suoi album sintetizzatori e strumenti tradizionali a volte si compenetrano per turbare i pezzi ed evocare storie d’amore tra terrestri e alieni che si ibridano. Che sia una chitarra acustica, un’orchestra, un violoncello, una voce umana o una batteria veramente suonata, non c’è limite se non il possibile dialogo tra mondi apparentemente diversissimi, ma che derivano dalla stessa matrice: le stelle. Ed è per questo che nell’ultimo periodo si è ultradigitalizzato, indugiando sui campionamenti e su sintesi d’imitazione che molte realtà new age hanno adottato suo malgrado come colonna sonora. L’obiettivo è arrivare al nucleo del suono che ci compone come esseri viventi.
Klaus Schulze è stato un profeta che ha cercato di allargare la nostra percezione di stasi e di dinamica, usando il suono come antidoto allo scorrere del tempo, entrando nelle crepe della musica occidentale smascherandone la malafede e aprendo le porte della conoscenza pensando finalmente a un essere umano che riesce a viaggiare da fermo, come il tao insegna. Ma nell’opera del maestro c’è di più, una ricetta tanto semplice quanto efficace per il nostro stare al mondo: «Quando posso concentrarmi su un progetto preciso, mi sento felice e mi diverto. Questo è un modo per restare vivo, in salute e in armonia con il mio spirito». Klaus è morto, lunga vita a Klaus.