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La fine dei Daft Punk ci riguarda tutti

Macché futurismo, la loro musica è sempre stata fuori dal tempo e in grado di toccare diverse sensibilità. Il loro scioglimento è un lutto collettivo che trascende gusti, tribù, fazioni

La fine dei Daft Punk ci riguarda tutti

Tanto si è detto e scritto attorno ai Daft Punk in questi trent’anni di carriera, ma nell’immaginario collettivo un mito fatica ancora a sradicarsi: i Daft Punk non sono mai stati futuristici. Nonostante un’estetica hyper-tecnologica dal gusto rétro (e qui scatta l’incomprensione) non sono stati moderni agli esordi, né tantomeno anacronistici o revisionisti nella loro evoluzione finale. A rifletterci ora, a distanza di qualche anno dalla loro ultima pubblicazione e dopo l’annuncio del loro (reale?) scioglimento, questo misunderstanding sembra palesarsi con maggior convinzione: i Daft Punk non sono mai stati del nostro tempo, non hanno incarnato futuri premonitori o passati in cui rifugiarsi, loro hanno edificato su un presente perenne capace di parlare ad ogni pubblico, in ogni momento, dal club alla radio, dalla festa in casa al solipsismo di giradischi, walkman, CD player, lettore mp3, distributore digitale. La dipartita dei Daft Punk è un lutto per una comunità globale ed eterogenea, e i nostri social e le nostre bolle ne sono testimonianza.

Lontano dal confronto pubblico e dalla esposizione mediatica di questo momento storico, il duo francese ha agito con discrezione sulla linea temporale per 28 anni terrestri, in un’epopea che – prima – li ha resi robot (Discovery) e, in seguito, ne ha sublimato la robotica fino a giungere all’uncanny valley, territorio dell’umano-non umano, o meglio, dell’umano-troppo-umano (Random Access Memory). In questo tempo minuscolo quanto sterminato (secondo la nostra soggettiva esperienza della temporalità), i Daft Punk non hanno mai avuto intenzione o pretesa di ergersi a veggenti di un suono del futuro; è stata un’incomprensione di noi addetti ai lavori e di noi pubblico causata dai limiti strumentali del nostro pensiero. I Daft Punk ambivano a un’immortalità stilistica, all’elegante progetto per il perfezionamento dell’uomo in jukebox.

I Daft Punk esistono in un immanente hic et nunc. Navigando nella storia musicale in un eterno presente, sono stati in grado – grazie ad una classe innata, aliena e parigina – di costruire un inedito clash di stimoli audio-visivi capace di trascendere il momento storico delle loro pubblicazioni. Nel loro tempio-senza-tempo i robot francesi hanno costruito un presente sonoro continuo: campionando a piene mani dal passato, ed essendo stati campionati con continuità nel presente recente quanto – sicuramente – nel prossimo futuro, hanno generato un cortocircuito temporale che ha neutralizzato la linearità del tempo e le differenze di audience.

In quattro dischi ufficiali (escludendo colonne sonore, raccolte, live album) hanno cannibalizzato così tanti generi musicali e così tanti riferimenti sonori da eludere la linea passato-presente-futuro, piegandola a proprio favore: è così che gli album dei Daft Punk, vampireschi, non sono mai invecchiati, riuscendo ad ammaliare un pubblico sempre più eterogeneo, sedimentandosi nella cultura occidentale. Pensiamo a Something About Us, brano di inizio carriera contenuto in Discovery, o a Get Lucky, estratto dall’ultimo lavoro in studio, Random Access Memory: le due canzoni suonano eternamente contemporanee, tanto in questo decennio così come in ogni epoca precedente. La musica dei Daft Punk non è futuristica, né retromaniaca: è semplicemente fuori-dal-tempo, un dancefloor eterno dove ballare One More Time in loop. Un girone infernale bellissimo.

I Daft Punk hanno plasmato un’identità musicale plastica a più livelli (questa è la chiave per raccontare un successo così trasversale) tra eclettici campionamenti funk, bassi hip hop, citazioni yacht rock e space disco, emotività robotizzata e vocals disco, con attitudine dancefloor ma in forma canzone. Per idee, scelte, esecuzione, ogni album dei Daft Punk si è imposto come input fondamentale per ciò che è venuto in seguito, condizionando l’impianto culturale. Homework sdoganò l’idea che i producer da cameretta potessero conquistare il dancefloor mondiale, Discovery puntò le luci del clubbing verso la French House, Human After All aprì la strada all’esplosione del suono electro-clash-rock della wave di Justice e Ed Banger, Random Access Memory indirizzò il pop mainstream verso arrangiamenti analogici suonati con chirurgia digitale, un percorso ideale che da Mark Ronson e Bruno Mars è passato per Janalle Monáe fino a giungere al successo odierno di Dua Lipa, riportando in auge produttori leggendari come Giorgio Moroder e Nile Rodgers. Questo senza considerare il ciclico ritorno della loro influenza su artisti di universi differenti (Kanye West, LCD Soundsystem, Skrillex, Deadmau5, Madonna, The Weeknd) e generi musicali (EDM).

Anche un disco minore come Human After All riuscì ad avere un impatto clamoroso sulla culturale generale grazie a Technologic, brano capace di trascendere ogni possibile nicchia sonora, riproducendosi continuamente nella storia della musica occidentale in una serie di remix (Peaches, Digitalism, Basement Jaxx) e rivisitazioni da altri mondi come Touch It di Busta Rhymes, The Boys di Nicki Minaj e Cassie, e Stronger con Kanye West, game changer capace di consacrare la carriera del duo all’interno del mercato americano.

Prendiamo ora i quattro lead single estratti dai lavori appena citati: Around the World, One More Time, Technologic, Get Lucky. Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter nascono come producer da club, ma ben presto irradiano la loro musicalità alla forma-canzone, costruendo pop-song-dancefloor in cui il groove si impossessa di corpi, fianchi, bacini mentre la melodia muove le labbra dei presenti, ventriloqua. Un’algoritmica costruzione sonora universale; se non stessimo parlando di robot, forse avremmo potuto usare qualche definizione sciamanica come “formula magica o spirituale”. Il culto dei caschi robotici è senza distinzione di età e geografie: ma i cyborg (ri)conoscono la spiritualità?

I Daft Punk si sono sciolti in un lunedì qualsiasi di metà febbraio, in mezzo ad una pandemia, a otto anni dall’ultimo disco in studio e dopo cinque anni di silenzio artistico, con un video (Epilogue) recuperato da parte del finale di Daft Punk’s Electroma, il loro lungometraggio del 2006, a cui è stato aggiunto il refrain finale di Touch, estratto da RAM, e una grafica che segna due date: 1993-2021. Per una band che ha comunicato raramente, e sempre con una certa epica, un addio così poco iconico, quantomeno sottovoce, lascia il campo a speculazioni. I Daft Punk erano, sono e saranno la band più importante della storia della musica elettronica e il lutto collettivo che da ieri ha investito il nostro universo culturale è la dimostrazione indiscutibile di questa capacità intrinseca di superare momenti storici, mode, tendenze, posizionandosi in una dimensione privilegiata, super partes, alla portata di chiunque. Ora non rimane che una e una sola domanda: una band che trascende l’idea di tempo, rifuggendo concetti obsoleti come passato, presente, futuro, può davvero sciogliersi?

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