Sapete perché la Premiata Forneria Marconi è il più grande gruppo rock italiano? Perché quando PFM sale sul palco non ce n’è per nessuno, cinquant’anni fa come ora. PFM sono i nostri Rolling Stones, ma rispetto agli inglesi sono dotati di una tecnica assai più funambolica. Quando PFM attacca a suonare ti spettina. E non sono solo musicisti pazzeschi, hanno anche un’inventiva e un’apertura musical-mentale senza pari. Nel tritacarne PFM passa la musica classica, quella cantautorale, quella mediterranea, il jazz e il folk che si infuocano in una baraonda rock al fulmicotone.
PFM del resto è nata dall’unione di quattro musicisti chiave del primissimo rock italiano: il batterista Franz Di Cioccio, il chitarrista Franco Mussida, il tastierista Flavio Premoli e il bassista Giorgio “Fico” Piazza (che dopo i primi due album sarà sostituito da un altro fuoriclasse: Patrick Djivas, ex Area). Nel corso della seconda metà degli anni ’60 i quattro suonano nei dischi di tutti i più grandi, in particolare quelli di Lucio Battisti. Tutti i primi successi del reatino vedono la presenza della proto-PFM, che all’epoca agisce sotto la denominazione de I Quelli e ha inciso anche qualche 45 giri di scarso successo. Durante un breve periodo in cui il nome della formazione è mutato in Krel, conoscono Mauro Pagani, violinista e flautista bresciano coinvolto, come loro, nella registrazione de La buona novella di Fabrizio De André.
L’incontro è di quelli destinati a cambiare per sempre le sorti della musica italiana. In breve i Krel + Pagani si mettono insieme sotto il nome di Premiata Forneria Marconi (un esercizio commerciale che operava in quel di Chiari, a Brescia) e dal 1972 iniziano a darci dentro con dischi e concerti fino a raggiungere risultati tutt’oggi incredibili. Per dirne una sono l’unico gruppo rock italiano a entrare nelle classifiche di vendita americane e inglesi.
È il palco l’ambiente naturale di PFM, è lì che i brani mutano pelle, acquistano energia, si dilatano. A Di Cioccio & co. è sempre fregato poco andare a rifare i dischi paro paro sui palchi, il concerto per PFM è un vero rito sciamanico. Ma c’è anche l’aspetto discografico, portato avanti nel corso di questi quasi cinquant’anni con un preciso assioma: ogni disco deve essere diverso dal precedente. Nonostante il successo ottenuto, PFM ha infatti avuto due palle enormi per non adagiarsi mai sugli allori e sperimentare, sempre e comunque. Ciò significa dare in pasto agli ascoltatori album con sempre nuove idee, sonorità, modi di concepire la canzone. Certo, ci sono stati album incredibili insieme ad altri sottotono, c’è chi ama il loro lato prog, chi quello pop-rock, chi li adora nell’indimenticabile esperienza con De André. Ma PFM non è l’una o l’altra cosa, PFM è tutto un mondo musicale in continua espansione. Anche oggi, dopo mille cambi di formazione, pause e tour infiniti, la Premiata non perde e non perderà mai la voglia di stupire e di stimolare i suoi ascoltatori. Per questo PFM è il più grande gruppo rock italiano.
Per aiutarvi a districarvi tra i 15 album di studio della band ecco una classifica, dal meno riuscito all’indispensabile, escluse versioni in altre lingue, live, tributi e collaborazioni.
15. “PFM? PFM!” (1984)
L’Invisible Touch della PFM? In parte. Sicuramente anche la storica band italiana non sfugge, all’inizio degli anni ’80, a una certa plastificazione del suono e a un deciso alleggerimento della proposta musicale che va a sposare un pop-rock di facile consumo non distante dalla proposta genesisiana dell’epoca. Il titolo è già eloquente e se ne rendono conto gli stessi musicisti: veramente questa è la PFM? Ebbene sì, ma non tutto è male ciò che è anni ’80, anzi. Tra ritmiche serrate alla Police e fiati alla Phil Collins, la PFM non dimentica la classe che balza fuori quando meno te l’aspetti. Ne sono testimonianza le chitarre acustiche mozzafiato in Sentimentalmente, la bella costruzione pop di Capitani coraggiosi o l’afflato battistiano di Ego-telecomunicazione. In questo disco Di Cioccio è unico cantante solista (proprio come Collins con i Genesis) e affida la batteria a un altro fuoriclasse: Walter Calloni.
14. “Emotional Tattoos” (2017)
L’ultimo (in ordine di tempo) album della PFM è anche quello per la prima volta privo di Franco Mussida, da sempre presente tra le fila della formazione lombarda. Con il sostituto Marco Sfogli e con gli inossidabili Di Cioccio e Djivas al timone, il disco cerca di fondere l’anima prog della band con quella più pop e cantautorale. A tratti l’equilibrio regge (vedi l’iniziale Il regno), in altri punti viene meno (il singolo Quartiere generale) e si rimpiange non potere sentire i musicisti osare maggiormente con le circonvoluzioni sonore che hanno fatto la storia della band. A mettere a posto le cose ci pensano brani come Freedom Square (frase dal testo della vecchia Harlequin) che ci restituisce la PFM più ardita, con il violino di Lucio Fabbri in stato di grazia.
13. “Miss Baker” (1987)
Miss Baker è il disco dell’armonia pop-prog anni ’80. Se il precedente PFM? PFM! Aveva fatto storcere il naso ai più, questo rimette le cose a posto con una manciata di brani più commerciali (con ancora forti influenze Collins-Police) ma di ottima qualità (Prima che venga la sera, Finta lettera di addio di una rockstar per farsi propaganda) che si alternano a momenti in cui la verve compositiva del gruppo torna ad alti livelli: la soffusa Josephine Baker e soprattutto Colazione a Disneyland, che lambisce territori jazz e sinfonici con rinnovata maturità e una superlativa prova tecnica da parte dei musicisti. Il brano è basato sul preludio dalla Partita No. 3 in Mi Maggiore per violino solo di Johann Sebastian Bach e anticipa il futuro esperimento rock-orchestrale di PFM in Classic (2013). Dopo questo album la band entrerà in stand-by per 10 anni.
12. “Serendipity” (2000)
Con il primo disco del nuovo millennio PFM riesce nella difficile impresa di costruire una serie di brani coraggiosi quel tanto che basta da elevarli dal pop-rock standard. Ma non solo. Come il titolo fa presagire ogni pezzo di Serendipity è il pretesto per trovare qualcosa di più profondo rispetto alle apparenze. Impreziosito da testi scritti per l’occasione da personaggi del calibro di Franco Battiato, Pasquale Panella, Daniele Silvestri e Fernanda Pivano, l’album è il pretesto per mettere in scena 11 canzoni piene di sorprese a livello melodico, di arrangiamenti e suoni. Inutile segnalare il momento più pop rispetto a quello più prog o elettronico (caratteristica presente come non mai in questo disco), a fare di Serendipity un’opera da riscoprire assolutamente è la sua compattezza, il suo intento di nobilitare il rock andando anche oltre le forme ormai tristemente cementificate del prog. Rendere questa serie di canzoni realmente “progressive”.
11. “Ulisse” (1997)
A dieci anni da Miss Baker (e con il rientro in pianta stabile di Flavio Premoli) PFM torna a calcare i palchi mondiali con il chitarrista, il tastierista e il batterista ad alternarsi alle voci, come negli anni ’70. Il risultato della reunion è Ulisse, un album che in qualche modo lascia interdetti i fan, abituati al prog dei ’70 o alla spinta pop-rock degli ’80. Il nuovo disco è ancora un’altra cosa, un concept su un ritorno, quello dell’eroe omerico alla sua Itaca, certo, ma anche il ritorno di Di Cioccio-Mussida-Premoli-Djivas al progetto PFM, che ora come non mai è coesa in un viaggio che profuma di aromi mediterranei. Che non scorda l’esperienza con De André e la trasla in 11 brani tinti a vari livelli di prog e di umori etnici. Canzoni che fa bene ascoltare, che mettono addosso carica, benessere, voglia di spingersi oltre. Esattamente come fa da sempre il gruppo.
10. “Come ti va in riva alla città” (1981)
Fermi tutti, qui si parla di rock. Lasciate perdere il prog, De André e tutte le altre cose per le quali PFM è conosciuta. Nel 1981 la band perde Premoli e si lascia indietro definitivamente gli anni ’70 per forgiare un progetto che mai più sarà così metropolitano. Un disco milanese fino al midollo: cemento, droga, periferie, degrado, strade che sembrano fare da sfondo ai guerrieri della notte del famoso film. Come ti va in riva alla città è una svolta di quelle che i fan digeriscono malissimo ma col senno di poi si rivela un cazzutissimo disco rock senza fronzoli, che dimostra l’incredibile capacità di questa band nel cambiare pelle ed essere sempre credibile. Con due gemme metropolitane assolute: Come ti va? e Chi ha paura della notte.
9. “Dracula Opera Rock” (2005)
Nel peregrinare tra i vari generi lambiti non poteva mancare l’opera rock. Quella di PFM parte con grandi ambizioni: una faraonica messa in scena e la produzione di un colosso come David Zard. Purtroppo tutto naufraga in fretta e di Dracula non si sentirà più parlare. Peccato perché è un lavoro che riesce a radunare tutti i vari tasselli musicali della carriera di PFM in maniera spesso eccelsa. Il disco è una sorta di “best of” di quella che sarà l’opera integrale (pubblicata in un doppio cd con i brani interpretati dagli attori) e a tratti mostra una PFM che ha finalmente fatto pace col prog e sembra dire “adesso vi facciamo vedere noi come si fa”. L’Overture ne è la prova: cinque minuti di assoluto godimento rock-sinfonico con tanto di orchestra. Il resto non si impantana nelle stucchevolezze che a volte funestano i musical ma sa rimanere sempre sul filo di una grande eleganza compositiva e tecnica. Un destino di rondine, con l’ospite Dolcenera, ne è l’esempio.
8. “Passpartù” (1978)
Con una voce “di ruolo”, quella di Bernardo Lanzetti (ex Acqua Fragile), PFM affronta l’ultimo scorcio di anni ’70 avvicinandosi ad atmosfere cantautorali che faranno da preludio alla collaborazione con Fabrizio De André. Essendo un gruppo rock, PFM non dimentica però di pompare sangue tra lo scintillar di chitarre acustiche e i testi sardonici (mai così importanti, fino a questo momento) di Gianfranco Manfredi, guru della controcultura milanese. Il risultato è rinchiuso in otto canzoni fresche e originali che non sono prog e non sono cantautorali, ma allo stesso tempo sanno andare oltre entrambe i generi. Con copertina di Andrea Pazienza.
7. “Stati di immaginazione” (2006)
Il grande colpo di coda di PFM che (al netto di un nuovo abbandono di Flavio Premoli, sostituito da Gianluca Tagliavini) sforna a un disco 100% prog come non succedeva almeno dal 1977. Non solo, Stati di immaginazione è completamente strumentale (mai successo in precedenza) ed è una sorta di colonna sonora per una serie di cortometraggi (compresi in un dvd allegato al cd) che la band sonorizzerà dal vivo. Il risultato è vera manna dal cielo per chi ama visceralmente la PFM prog. Dall’iniziale La terra dell’acqua alla conclusione con Visioni di Archimede, l’album del 2006 è un languido adagiarsi su terreni ora classicheggianti, ora maggiormente acustici, ora appassionatamente tirati. Certo, manca quel pizzico di coraggio in più, ma per una volta ce ne possiamo tranquillamente fregare.
6. “Suonare suonare” (1980)
Dopo il tour con De André emerge una PFM nuova di zecca. Complici anche i tempi che stanno mutando, all’alba degli ’80 il gruppo si re-inventa, concede più spazio ai testi e meno alle lunghe cavalcate strumentali. Si sforza di costruire un linguaggio più attuale in cui le influenze cantautorali (già comunque presenti in Passpartù) possano andarsi a fondere con quel concentrato di Mediterranean rock messo a punto con il sommo genovese. In formazione entra ufficialmente Lucio Fabbri a violino e tastiere, Di Cioccio si impossessa sempre più del microfono (coadiuvato da Walter Calloni alla batteria), il prog si fa da parte e i brani raggiungono un pubblico nuovo rispetto al passato grazie alla maggiore comunicativa offerta dai testi. Tra le tante belle sorprese di questo disco da ricordare la toccante Maestro della voce, dedicata al prematuramente scomparso Demetrio Stratos.
5. “Jet Lag” (1977)
È l’album jazz-rock di PFM, con l’americano Greg Block a sostituire al violino il dimissionario Mauro Pagani e tanta voglia di stupire, sia in senso tecnico che compositivo. Il primo elemento non manca certo alla band che da sempre suona con tutta la bravura e la passione possibile, il secondo aspetto rischia di essere un po’ messo da parte in un genere come il jazz-rock, più improntato sulle capacità dei musicisti e l’improvvisazione. PFM riesce invece nel miracolo di costituire una serie di canzoni che stanno perfettamente in piedi, pur rivestite di tutte le particolarità care al genere. Bernardo Lanzetti si stacca un poco dalle tonalità eccessivamente gabrieliane di Chocolate Kings e inventa un linguaggio canoro tutto suo, specie quando si esprime in italiano (Cerco la lingua).
4. “Chocolate Kings” (1975)
Chocolate Kings è un disco tanto bello quanto paradossale. PFM infatti dà un calcio alle speranze di gloria in territorio americano e sforna un disco (interamente in inglese) che è un vero atto di accusa nei confronti delle politiche statunitensi. L’artefice di ciò è sopratutto Mauro Pagani che con i sui testi al vetriolo non le manda a dire. Chocolate Kings è un album di grande bellezza e compattezza, con gemme prog come From Under, Harlequin e Out of the Roundabout unite a momenti tiratissimi come la title track. La voce di Bernardo Lanzetti (entrato in formazione proprio con questo disco vista la necessità di un “vero” cantante che agisca anche da frontman) a volte contribuisce a traslare un po’ troppo il solido impianto PFM in territori genesisiani, facendo perdere un poco di originalità alla proposta. Ma la carne al fuoco è comunque tanta. Dopo questo album Mauro Pagani dirà addio a PFM.
3. “Per un amico” (1972)
Il terzetto finale delle meraviglie si apre con il secondo album della Premiata, pubblicato pochi mesi dopo l’esordio. Rispetto al più immediato Storia di un minuto, Per un amico approfondisce l’aspetto sinfonico, con lunghi affreschi che faranno la gioia dei progfan più intransigenti. Qui c’è tutto quello che si può sognare da un disco prog: Mellotron a cascata, enormi svisate di Moog, cambi di tempo, flauti, violini e pianoforti in evidenza, voci trasognate e testi immaginifici (che nascondono diverse prese di posizione politiche da parte di Mauro Pagani). Sinfonicissima l’iniziale Appena un po’, inquietante la title track, ironica e labirintica Il Banchetto, surreali e scomposte Generale e Geranio. A seguito dell’interesse internazionale di Per un amico verrà pubblicata (per Manticore, l’etichetta di Emerson, Lake & Palmer) una versione in inglese, Photos of Ghosts, con una registrazione ex novo di È festa (che diventa Celebration) e un inedito: Old Rain.
2. “L’isola di niente” (1974)
Esce “Fico” Piazza ed entra Patrick Djivas, proveniente dagli Area. Il suo ingresso porta alla formazione un deciso apporto jazz, come si può ascoltare nel brano che chiude il terzo album di PFM: Via Lumière. Per il resto le istanze sinfoniche si fanno meno insistite rispetto a Per un amico, il suono acquista maggiore maturità e il prog di marca PFM riesce ad amalgamare al meglio le influenze jazz di cui sopra con i rinnovati sapori mediterranei che avevano caratterizzato Storia di un minuto ed erano stati messi un poco da parte nel disco successivo. Il brano che intitola l’album si avvale di un grande coro ma poi schizza in mille direzioni, tra clangori chitarristici e pause acustiche, Is My Face On Straight è folkeggiante e lunare, La luna nuova ha un tema che diventerà celebre e fraseggi impossibili di chitarra e tastiere, Dolcissima Maria e una piccola oasi melodica per riposare le orecchie dopo tanta creatività. Anche de L’isola di niente viene pubblicata una versione inglese, intitolata The World Became the World, con l’aggiunta di una Impressioni di settembre in salsa british.
1. “Storia di un minuto” (1972)
Cosa resta da dire che non sia già stato detto su Storia di un minuto? Che è uno degli album più belli e importanti della musica italiana? Che al suo interno, per la prima volta, il nostro folk si amalgama con il miglior rock possibile? Che ci sono la canzone, la musica classica, il jazz e i primi roboanti suoni di sintetizzatori uditi nel nostro paese? Che include il brano più famoso di PFM, Impressioni di settembre, che è un flash battistiano della miglior specie? Che tale canzone sfoggia un ritornello non cantato bensì strumentale? Che questo ritornello è un tema di Moog che farà la storia? Che È festa è proprio una vera festa di suoni mediterranei che si fondono perfettamente con i synth? Che Dove… quando (parte 1 e 2) è dolcissima quanto una Moonchild crimsoniana, ma poi si trasforma in un numero jazz-prog da brividi? Che La carrozza di Hans è un viaggio dentro a un sogno? Che Grazie davvero è tanta bella quanto sottovalutata? Direi che è già stato detto tutto su questo disco. Non rimane che continuare ad ascoltarlo, ieri come oggi come domani.