Rolling Stone Italia

La musica chillhop non è solo muzak per la pandemia

I beat lenti e morbidi del lo-fi non servono solo per studiare e lavorare. Rappresentano la rivincita di produttori che hanno trovato un modo per mettere a frutto il loro talento in tempi difficili

Foto: dall'account YouTube di Lofi Girl

Mentre scrivo questo articolo in un pomeriggio di inizio giugno, il canale YouTube di LoFi Girl (8,5 milioni di iscritti), celebre per il suo artwork pastello che cita la protagonista de I sospiri del mio cuore dello Studio Ghibli, sta trasmettendo due livestreaming 24/7 (iniziati in pandemia nel tardo febbraio 2020) seguiti rispettivamente da 42 mila e 7000 utenti. Nello stesso momento, un altro canale del settore, Chillhop Music (3,1 milioni di iscritti) sta trasmettendo ulteriori livestreaming 24/7 con una media di 3000 ascoltatori per canale.

Questi sono alcuni dei numeri della chillhop e del lo-fi hip hop, i due generi musicali che più di tutti, durante questo primo anno pandemico, sono riusciti ad affermarsi con veemenza negli ascolti mondiali. Spesso usati come termini intercambiabili (la differenza è spesso ridotta alla scelta qualitativa nel mastering dei brani) o sintetizzati nel termine lo-fi, questi generi strumentali si formano su beat ritmici down tempo, tendenzialmente swingati (come insegnato da J Dilla, producer di Detroit che ha fatto la storia di un certo drumming e del sample flipping), armonie rilassate dai profumi jazz, sample sporchi e sound effect polverosi in background. Qualcosa da mettere su per chillarsi, qualcosa che non richiede un elevato grado di attenzione essendo, di per sé, musica da sottofondo. Una sorta di muzak, la musica per ascensori, ma più cool e diretta principalmente alla generazione Z e i suoi burnout. Musica per rilassarsi durante la fine del mondo.

«Questi generi funzionano perché le persone riescono a relazionarcisi facilmente. Sono molto diffusi grazie ad un’abbondanza di risorse, come dimostrano i vari canali di live streaming 24/7. I musicisti ne sono stati attirati anche perché con la pandemia avevano perso la possibilità di esibirsi dal vivo e avevano bisogno di cercare nuove possibili entrate», ci racconta Paul Pastourmatzis, in arte Pueblo Vista, producer greco con base in Austria. Paul ha 40 anni e una figlia e da poco ha pubblicato un album da 13 tracce, Am épos am érgon, distribuito da Universal Music, che rimpolpa una discografia che, su Spotify, pare infinita. Una caratteristica tipica della lo-fi, difatti, è l’iper-produttività degli artisti che, liberati dal bisogno di un vocalist, possono dedicarsi esclusivamente alla costruzione ossessiva di beat, con la preziosa opportunità di rimanere tranquillamente dietro le quinte. «Fare musica in questo momento storico non è sicuramente sano. All’artista sono richieste una serie infinita di attività – dal produrre musica al rapporto coi fan, dai social alla ricerca continua di nuove opportunità – ed è qualcosa che ti consuma. Con questo genere però posso non essere in prima linea, e questo mi fa stare bene. È sicuramente meno stressante».

Tra canali di livestreaming e playlist ad hoc seguitissime, la lo-fi permette ai producer di trovare nuove risorse economiche direttamente dal proprio studio casalingo. «Non essendoci rapper o cantanti, nella lo-fi viene abbattuta la barriera linguistica. Inoltre i BPM tipici dell’hip hop classico, più lenti rispetto a quelli attuali, giovano alla mente umana e al suo funzionamento. Per un producer non c’è niente di meglio di stare dietro le quinte, magari nel suo basement a comporre o tagliare samples. Quella che vediamo nella lo-fi è una rivincita di chi sta dietro le macchine», conferma Alsogood, produttore calabro fresco di uscita con il suo nuovo album Life’s Beautiful, nove brani strumentali di breve durata che riassumono con chiarezza l’idea di questo slow hip hop dai richiami jazz. Un gusto rétro, ma evergreen, una tendenza che rientra perfettamente nella teoria sulla retromania del critico inglese Simon Reynolds. Produrre lo-fi è un esercizio che stimola il lato nerd/artistico del produttore, funzionando da congiunzione tra la passione per il beatmaking e la possibilità di economizzare tale interesse.

Se, da un lato, la lo-fi suona come «un rumore bianco con un effetto calmante che parla al tuo subconscio», come la definisce Pueblo Vista, è interessante notare lo stesso genere venga comunicato nei suoi maggiori canali. Il già citato Chillhop Music, nella sua descrizione, si augura che il proprio pubblico possa godere di questi ascolti per studiare, rilassarsi e lavorare. Ed è quest’ultimo punto che porta con sé alcune riflessioni. Come evidenziato da Amanda Petrusich sul New Yorker, quest’idea di musica senza spigoli spesso assume la forma di un onnipresente tool produttivo piuttosto che di una mood music dedicata al rilassamento (o all’escapismo) come invece accade nella ambient music. La provocazione di Petrusich è evidente: la lo-fi rischia di diventare l’ennesima deviazione dell’iper-capitalismo, musica apatica da usare come sottofondo mentre si (iper)lavora al computer. Un tool per aumentare la produttività, rendendola monotona, ma cool, senza tempo, e quindi senza orari di lavoro fissi. E questo non è rassicurante se, come evidenziato da Forbes, l’audience in questione è composta per il 75% da giovani tra i 18-34 anni, ovvero Gen Z e late millennials, la generazione più a rischio sul tema del lavoro e dei diritti annessi, in particolare nelle derive più violente e sommesso dello smart working.

Pueblo Vista. Foto press

La visione degli artisti, però, è molto lontana dall’opinione di Petrusich. «Credo che vendere la lo-fi come un tool produttivo sia un passaggio successivo alla commercializzazione, ma comunque non ci vedo nulla di male. Tutti i generi di musica devono, in qualche modo, essere accettati dal pubblico. Questo ha semplicemente trovato la sua nicchia», risponde Pueblo Vista, «ma comunque l’intero concetto di streaming è fottutamente capitalistico e iper-monetizzato. Allo stesso tempo però non posso essere negativo verso qualcosa che porta il cibo sulla tavola di gente che fa musica». Anche Alsogood non è stupito da questa direzione. «Oggi tutti provano a pettinare qualcosa per venderla meglio ed in fretta quindi non mi meraviglio più di tanto», spiega. «Vedo la lo-fi come una naturale e necessaria evoluzione dell’hip hop. Posso assicurarti che c’è un pubblico consapevole, interessato, e tante realtà importanti tra etichette e addetti ai lavori che portano avanti la faccenda».

L’idea generalizzata di trovarsi di fronte a un genere che viene percepito, per scelte stilistiche minimali e iper-produttività, come semplice da comporre, non aiuta però la percezione critica del genere. E su questo Pueblo Vista si toglie un sassolino dalla scarpa: «Non vorrei che la lo-fi venisse intesa come cool background music. C’è questo malinteso comune per cui si pensa che il lo-fi hip hop sia super facile da produrre e che il chill hop sia solamente un qualche riff di piano o chitarra recuperato dai loop di Splice o Tracklib. Ma la realtà è molto lontana, ci sono livelli e livelli di lavoro in queste produzioni».

Esercizio economico o luogo di libertà creativa? Muzak da sottofondo o evoluzione dell’hip hop e del beatmaking? Musica per nessuna-occasione-specifica o genere degno di rilevanza critica? Il discorso attorno alla lo-fi sembra oramai essersi polarizzato su estremi inconciliabili. Per quanto fatichiamo a trovare risposte, la lo-fi è qui, ora, adesso, con numeri folli e un esercito di producer delle più svariate geografie e età che uniscono l’amore per il beatmaking alla possibilità di economizzare un mestiere spesso poco supportato dall’industria musicale stesso. Possiamo biasimare chi si riempie il piatto facendo ciò di cui è capace anche se questo comporta un allontanamento dall’ideale artistico? Nel nome dell’arte, forse sì. Nel nome del realismo economico odierno, probabilmente no.

Iscriviti