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La musica è ancora la sagra della salsiccia: uno studio dimostra che non si è fatto nulla per il gender gap

Alcune ricercatrici universitarie hanno analizzato le canzoni finite in classifica negli Stati Uniti o candidate ai Grammy per capire quant’è diventata inclusiva l’industria che le produce. Risultato: in 10 anni non è cambiato granché

Foto: Fin Costello/Redferns

L’industria musicale non è stata in grado di rendere effettivamente inclusivi i gruppi che creano le grandi hit e questo a dispetto delle tante promesse fatte per anni alle donne del settore. È la conclusione dell’ultimo report della serie Inclusion in the Recording Studio? pubblicato da cinque anni ormai dall’Annenberg Institute della University of South California al fine di analizzare la composizione di genere di artisti, autori e produttori che hanno lavorato a tutte le tracce arrivate nella classifica annuale Hot 100 di Billboard e che sono state candidate nelle principali categorie dei Grammy. Scopo: misurare con precisione quanto siano rappresentate le donne in uno dei settori chiave dell’industria. Lo studio di quest’anno rivela che solo il 23,3% degli artisti, il 4,4% degli autori e il 3,9% dei produttori sono di sesso femminile.

«Si potrebbero fare tante congetture, scrivere articoli, organizzare proteste o rilasciare dichiarazioni, ma la parola chiave è solo una: stagnazione», dice la dottoressa Stacy Smith, fondatrice dell’Annenberg Institute, che ha firmato lo studio insieme a Karla Hernandez e alla dottoressa Katherine Pieper. «Per le artiste donne il trend è identico a quello del 2021, non vediamo alcun progresso. C’è gran clamore e una cacofonia di voci che dicono che tutto sta cambiando, ma i nostri dati suggeriscono il contrario».

Secondo Smith, i dati relativi al 2021 sono in linea con quelli registrati negli ultimi dieci anni. Rispetto al 2012 c’è stato un aumento di produttrici e autrici – all’epoca rispettivamente il 2,4% e l’11% – ma lo stesso non si può dire per le artiste. Se facciamo una media dei dati di tutto il decennio, le donne sono il 21,8% degli artisti, il 12,7% degli autori e il 2,8% dei produttori.

L’analisi della Hot 100 non è un metodo infallibile, ammettono le ricercatrici. Lo studio si concentra infatti solo sulle canzoni più popolari uscite in un dato anno, ma secondo il team di Annenberg questo metodo permette comunque di capire cosa accade con le canzoni più importanti e prodotte con più risorse.

Si deduce ad esempio che, a differenza di quanto succede con le donne, negli ultimi dieci anni la diversità razziale nella musica è aumentata. Nella Hot 100 del 2021 il 57% degli artisti vengono da minoranze, mentre nel 2012 erano il 38%.

Se si passa ad analizzare le nomination nelle cinque categorie principali dei Grammy (Song of the Year, Record of the Year, Album of the Year, Best New Artist e Producer of the Year), la situazione non migliora. Nel 2022 le donne candidate erano solo il 14,2%. Un anno fa erano il 28%, un calo che non si vedeva dal 2016. Negli ultimi dieci anni l’unica categoria in cui le nomination sono equamente suddivise tra uomini e donne è Best New Artist, dove dal 2013 le donne sono il 55% dei candidati. La categoria più dominata dagli uomini, invece, è Producer of the Year, dove arrivano al 98% delle nomination. In più di dieci anni l’unica donna ad averla ottenuta è Linda Perry.

Secondo Pieper, l’assenza di miglioramenti è dovuta all’ambiente tossico in cui si muovono le donne dell’industria. «Sono sessualizzate, stereotipate, ignorate e non considerate come leader», dice, citando problemi segnalati nelle ricerche precedenti. «I dati sono alla portata di tutti, ma sembra che ci sia una rimozione collettiva, come se avessimo dimenticato che è questa l’esperienza tipica per una donna del settore».

Oltre alle classifiche e alle nomination ai Grammy, i ricercatori hanno analizzato l’iniziativa Women in the Mix lanciata dalla Recording Academy nel 2019, un anno dopo la frase del CEO Neil Portnow secondo il quale le donne devono «farsi valere» per essere rappresentate ai Grammy. L’iniziativa è tra le più notevoli relative ai problemi di diversità dell’industria: tutti gli aderenti si sono impegnati a tenere in considerazione almeno due donne per i ruoli di produttore e fonico in ogni loro progetto.

Secondo lo studio, però, l’operazione si è rivelata inefficace. Solo quattro dei 476 aderenti all’iniziativa ha lavorato con una produttrice a un pezzo finito nella Hot 100. The Weeknd e Max Martin, entrambi firmatari di Women in the Mix, hanno lavorato con Ariana Grande (anche lei nell’iniziativa), che ha curato produzione e suono del remix di Save Your Tears a cui ha partecipato. Ron Perry ha scelto Jenna Andrews per co-produrre Butter dei BTS.

Smith dice che iniziative come questa sono mosse da buone intenzioni, ma tendono a non funzionare. «C’è poco controllo, e le azioni di chi partecipa non ricevono né critiche né riconoscimenti», spiega. «Quando si decide di partecipare a un’iniziativa o a cavalcare un’onda molto seguita dalla stampa è necessario prendere le cose sul serio, sono temi che riguardano un sacco di persone. Partecipare a un’iniziativa che fa molto rumore ma non ottiene granché equivale a mandare un messaggio chiarissimo, è un modo per far capire chi è benvoluto in questa industria e chi invece non lo è».

In più, ovviamente, aderire ad iniziative simili non crea alcun obbligo vero e proprio. Chiunque può farlo, è performance activism. Ryan Adams, che negli ultimi anni è ostracizzato dall’industria perché prometteva opportunità di carriera alle donne e poi le ignorava se rifiutavano i suoi approcci sessuali, è il secondo firmatario di quell’iniziativa.

In quanto alle misure che l’industria dovrebbe adottare per determinare un cambiamento tangibile, i ricercatori suggeriscono un approccio più diretto. In pratica, rendere obbligatoria la presenza di donne negli studi dei più grandi artisti e produttori. E deve avvenire su larga scala, dicono, perché strumentalizzarne solo una peggiorerebbe le cose.

Secondo Pieper, molti hitmaker hanno un pregiudizio di familiarità, ovvero continuano a lavorare con lo stesso ristretto gruppo di persone e non prendono in considerazione la possibilità che una nuova voce possa portare a risultati migliori. «L’industria continua a scegliere lo status quo, finché sarà così non cambierà nulla», dice. «È per questo che non vediamo progressi».

E cosa potrebbe ispirare un cambiamento? Su questo i ricercatori non hanno una risposta certa. E anche se il loro studio è fondamentale, sarebbe bello vedere dei risultati concreti. «Senza questa ricerca non potremmo dire che non ci sono stati progressi», dice. «Ora non ci sono scuse. La situazione non migliora perché qualcuno ha deciso che non è la priorità. Fino al giorno in cui arriverà un’altra crisi e allora un sacco di gente farà grandi annunci e promesse».

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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