La sveltina del Piotta al Festivalbar | Rolling Stone Italia
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La sveltina del Piotta al Festivalbar

Non in quel senso. In un estratto dal libro 'Il primo re(p)', Zanello racconta il rapporto fugace col mainstream ai tempi di 'Supercafone'. E poi: in ascensore con Carmen Consoli, i Pooh che si tingono i capelli, la hit registrata nel cesso, i rapporti con la Curva Sud e una gloriosa sagra del cinghiale

La sveltina del Piotta al Festivalbar

Piotta

Foto press

“Ma tu sei quello di quella canzone divertente che sta girando dappertutto?”
La voce della ragazza con me nell’ascensore aveva un chiaro accento siculo, a occhio e croce catanese. Dietro gli occhiali, neri come i suoi capelli, nascondeva un viso familiare, anche se non l’avevo mai vista prima.
E fu così che conobbi Carmen Consoli.
 Mi aspettavo una “cantantessa austera”, e invece mi trovai davanti una ragazza poco più grande di me, spontanea nell’atteggiamento quanto nelle sue parole, che apprezzai sinceramente.
Ma che ci facevo in ascensore con Carmen?
Facciamo un passo indietro.

Ad aprile era uscito il video di Supercafone, e dopo sole due settimane la cantavano tutti, la ballavano tutti e tutti ripetevano i celebri scambi di battute tra me e Valerio Mastandrea nel video, diretto come tutti i precedenti – e poi anche i successivi fino a La Grande Onda – da Marco e Antonio Manetti. I fratelli vollero girare in pellicola Super 16, per ottenere quell’effetto fotografico caldo e sgranato, a metà tra una clip musicale e un cortometraggio cinematografico.

Quelle cinque battute erano ovunque: merchandising abusivo, mercatini, edicole, con titoli e parole a volte leggermente storpiate, per evitare eventuali cause.
Titoloni in prima pagina, degni a volte di cause anche quelli, tipo “Piotta torna a Regina Coeli” (by La Padania), dove però non ero e non sono mai stato, pensando evidentemente a me come a una sorta di gangsta rapper alla carbonara, che comunque – lo dico soprattutto per gli ex lettori di La Padania – si fa senza panna. Ecco questo sì sarebbe un crimine da causa penale.
Lo stesso quotidiano vicino alla Lega Nord, una volta analizzato il mio cognome e le mie origini venete e friulane, parlò invece di una sorta di furbizia nel fingermi (ma io so de Roma, zio!) romano per fare soldi. I soliti leghisti.

Anche con i ragazzini della Curva Sud ebbi qualche scaramuccia. Quando scoprirono che provenivo dalla realtà dei centri sociali, risultai così scomodo da essere politicamente schifato. Devo aggiungere – per citare il loro credo – che la presi con molto “onore”, data la provenienza dello “sdegno”.

Queste due cose, un bel po’ di stress lavorativo, e tanta inaspettata invidia anche dalla mia scena, furono però le uniche note stonate di un’Opera perfetta.
 Un’Opera nata qualche anno prima in quel campeggio di Viserbella, che vi dicevo. Un’Opera portata avanti con una prima versione ufficiale presente nella prima stampa del mio album Comunque vada sarà un successo – mai titolo fu più profetico – e finalmente esplosa quando riscrissi le strofe come poi le conoscete.

Claudio Donato, mio datore di lavoro quando facevo il commesso da Goody Music, poi mio primo produttore e oggi amico di lunga data, da mesi ripeteva che quel pezzo era forte, ma che le strofe dovevano essere un po’ meno riferite al mondo rap italiano, e più vicine alla gente comune.
Alla fine, avendo inquadrato il mio carattere, mi convinse con tatto, intelligentemente, senza troppa pressione. E così una sera tornai a casa e, dopo cena, mentre i miei guardavano la tv, mi chiusi in camera e scrissi di getto le tre strofe.
Altrettanto di corsa le registrai nello studio nuovo mio e di Chicco, non più il Boxxx ma i ben più prestigiosi Grandi Magazzini Robba Coatta. Con ancora i lavori in corso e per sbrigarci, senza attendere la costruzione del box voce, reccai nel bagno, esattamente nel “cesso” 2mq x 1mq di quel sotto negozio in via Val di Chienti n° 71, dove ora ci hanno messo un autolavaggio, ma senza che nessuna spugna possa cancellare il fatto che lì sotto, da Roma Conca D’Oro, sia partita una canzone che ha fatto il giro del mondo, fino in Argentina prima e in Giappone poi, dove qualche anno dopo è persino diventata la sigla del campionato di calcio su Sky Japan.

Prima di arrivare in Giappone, e in altri mille posti disparati – dai più prestigiosi ai più grotteschi, davanti a 12.000 persone venute in una sola sera tutte per il sottoscritto e non conto chiaramente i vari Primo Maggio, MTV Day, etc. – mi fermai a Ostuni per il Festivalbar, o quel che ne rimaneva.

Prendo il Festivalbar come metafora degli anni Novanta.
La rassegna era per molti, incluso il sottoscritto, ancora un po’ un mito, ma in parte era già diventata lo specchio di se stessa. Un’idea geniale trasformatasi a mano a mano in qualcosa di banale, perché sempre più fake.
Era tutto in playback, persino l’applauso del pubblico a volte era registrato, d’annata. Tipo che canti nel ’99 ma l’applauso che senti è dell’anno precedente, perché magari più corposo, perché venuto meglio.
 Ma di che stiamo parlando? Del nulla, perlomeno musicalmente.
 E io quello facevo, musica seriamente, anche se spesso ironica e dissacrante come nel caso di Supercafone. 
Il Festivalbar invece era finto. Non mi piaceva, e quella sera ebbi una delle prime conferme che io e lo show-biz non saremmo mai andati molto d’accordo, e tutte le volte in cui avremmo fatto scopetta, come si dice a Roma, sarebbe stato solo per qualche sveltina, nulla di più.

Piotta - Supercafone (Live Festivalbar 1999)

Non c’era il clima da backstage dei veri concerti, delle jam di allora, era tutto più televisivo, e di tutti i media la tv è quella che ho sempre sofferto di più. Penso che su 100 proposte ricevute ne avrò declinate il 90%, dai talent ai reality, dalle ospitate alle fiction. Anche oggi, proprio un mese fa, uguale uguale. Quella volta in tv andai solo per due motivi.
 Era il mio primo Festivalbar e c’era Fiorello.
 Il secondo ha continuato ad evolversi così tanto da aver dato prova di tutte le sue poliedriche e irresistibili sfaccettature, il primo invece è morto, ma scoprii che era parecchio moribondo già allora.

Stando a quel che mi disse la mia etichetta, indipendente perché con le major non ho mai lavorato in roadster ma solo in distribuzione, il patto con la produzione era di avermi ospite due volte.
 Una volta vestito argentato esattamente come apparivo nel video – cosa che ero contrario a ripetere fuori dalla clip, e che feci volentieri solo da Serena Dandini proprio perché non me lo impose né chiese, data la sua sensibilità artistica – e una seconda volta “in borghese” all’Arena di Verona.
 Pensate che dopo Ostuni, abbia poi fatto la mia seconda apparizione alla finale prevista all’Arena? Colcazzo! Ingenuoiochemisonofidato. Avrei invece dovuto presentarmi normale a Ostuni (che poi normale si fa per dire, dato che vestivo XXXL e sembravo il protagonista di quel famoso cartoon americano, Fat Albert) e poi in tutto quello splendore argento platino, come i dischi venduti, a Verona, magari ruttando in maniera roboante, alla faccia di tutta quella plasticosa finzione.

Ma si sa come vanno queste cose. Cioè, in realtà io non lo sapevo, ma lo scoprii quell’estate, tanto bella quanto cinica, piena di quel sole che nascondeva però qualche nube all’orizzonte, l’orizzonte di
un lavoro che per me era ancora a metà tra una libera espressione e quella mentalità da music business che racconta Albertino nel film Numero Zero.

Alla luce dei fatti, portarmi all’Arena voleva dire essere obbligati a darmi il Premio della canzone dell’estate, perché Supercafone era a tutti gli effetti la canzone dell’estate del ‘99, senza se e senza ma. Come far perdere la finalissima a un artista davvero indipendente? Semplice, non convocandolo proprio. Il mio produttore si indignò sui giornali, e io dopo quattro mesi di inaspettato delirio, settantasette live in novanta giorni e uno stress mai visto prima, decisi, sbagliando, di ritirami nella tana della felicità, all’ombra dell’ultimo colle, evitando di alzare il tono delle polemiche e sfuggendo a quelle domande del TG5 di Mentana, tg che per insegnarmi le buone maniere mi punì con un servizio a dir poco scandaloso in merito al concerto di chiusura di quel lunghissimo tour.

Questa piccola storia è la Storia esatta di come io vivo la vita e la musica, non ci può essere esempio migliore. Si chiama la storia di Castel Giuliano.
 Io con Castel Giuliano, che è un piccolissimo borgo alle porte del Lago di Bracciano, nonché paese dei nonni della mia “allora-tuttora compagna-moglie” Valentina, avevo fatto un patto: “vi prometto che suonerò alla festa che fate ogni anno, perché è una festa che coinvolge tutto il vostro bellissimo Borgo”.

E così feci, come ho sempre fatto, rispettando la parola data. 
La festa si chiamava “La sagra del cinghiale”, festa che – al di là del nome casereccio – negli anni aveva già visto suonare musicisti del livello di Alex Britti, Otto & Barnelli, Stefano Rosso, Massimo Urbani e tantissimi jazzisti, sempre all’insegna della musica alternativa e di qualità, con una direzione artistica formidabile
curata dal dottore e patafisico Giancarlo Cruciani e dalla scuola di Musica di Bracciano.
 Certo, il nome era old school, con quel “sagra” che troppo spesso non fa rima con qualità musicale, ma quello era invece esattamente il caso opposto, senza considerare che la parola data è parola data. Dopo un’estate di fuoco, sempre in prima pagina, in città ed eventi importanti a Milano, due volte a Roma, e poi Torino, Napoli, Palermo, Bologna, Genova, Acquafan, 105, Radio Deejay, RDS, Battiti tour, MTV Day e quei TRL pomeridiani dove ero stato apprezzato persino da uno come Dave Grohl, quella chiusura “local” non solo non scosse emotivamente i giornalisti del Tg5 ma – incattiviti dal mio voler evitare in ogni modo polemiche con quel Festivalbar che pochi giorni prima mi aveva escluso ingiustamente dalla finale all’Arena di Verona – gli fece inventare una notizia.

E così, una riuscitissima festa di fine estate – tra parenti, amore, amici e ben 6000 persone in un antico borgo laziale – divenne secondo la loro narrazione un flop, con le immagini montate ad arte a fine concerto, a piazza ormai vuota. Un raro squallore umano e professionale che mi fece prendere, alle 13:30 della successiva domenica, una decisione netta: “Io con questi non c’entro un cazzo, voglio solo Musica vera, lascio a voi il mondo in crinoline della tv”. E mantenni la parola.

Fu l’ultimo concerto prima dell’autunno, e prima del mio film. Sì avrei realizzato anche il mio primo film.
 A conti fatti, per vivere quell’estate da protagonista – anche troppo a mio gusto – avevo aspettato cinque anni, ma alla fine la profezia riminese di J-Ax si era compiuta. Cinque anni in cui, non solo non ero rimasto con le mani in mano, ma avevo costruito il mio percorso e il mio potenziale successo giorno dopo giorno, passo dopo passo.

L’ascensore arrivò al piano terra, le porte si aprirono, arrivammo in camerino e trovai i Pooh che si tingevano i capelli. Il dado era tratto, in tutte le jam fatte fin lì non avevo mai visto nessuno tingersi i capelli, ma questa era la tv, questo era il mainstream, queste le regole d’ingaggio.

Ci misi quindi 90 giorni, 77 concerti, diverse interviste nazionali ed internazionali di ogni ordine e grado, un disco d’oro, poi un altro ancora, poi un premio AFI (Associazione Fonografici Italiani) come “Artista dell’anno” e svariati altri premi minori, per capire che con quell’ambiente non c’entravo nulla. Io qui, il mainstream là. Ogni tanto ci guardiamo storto, ogni tanto ci sfioriamo. 
Io sfido lui, lui sfida me, contento di rimanere in bilico…

“ … tra tutto e tra niente, tra passato e presente!
Coerente con me stesso ovunque vada, bada
“cos’è successo al ragazzo della strada?”.
Per stare ora qui ha corso su un percorso
diverso dal rimorso di chi si è perso.
Il resto dello spettacolo… come un miracolo
scompare. Resto colle rime e con i miei compari.
Patti chiari, sporchi piani, tutto inutile
dentro alla finzione io resto incompatibile.
Col cuore ho uno stabile contratto, non sono sempre attratto
dal mondo con cui sono in contatto.
Il fatto è che non vendo figli&matrimonio,
ma ho solo rime dentro come solo patrimonio.
(da Cos’è successo?”, Democrazia del microfono)

Che se lo leggi ora pare un dissing allo stile di vita di molti, penso ai Ferragnez per dirne un paio al volo tra i più noti, ma in realtà è il mio brano di risposta a tutto quello che mi era successo. Correva l’anno 2000, ed ero fuori con il mio secondo album, un’altra hit e un lungometraggio stracult come Il segreto del Giaguaro, il primo film in assoluto della scena rap italiana!

Tratto dal libro Il primo re(p). Alle origini del rap italico di Tommaso “Piotta” Zanello, Il Castello Editore

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