«La musica soul del Sud è il prodotto di un’epoca e di un insieme di fattori sociali difficilmente ripetibili», scriveva nel 1986 Peter Guralnick nell’introduzione al suo fondamentale saggio Sweet Soul Music tradotto l’anno dopo in italiano da Arcana. Era un genere, spiegava il grande autore e critico musicale (di pelle bianca), che secolarizzando il gospel e inglobandovi la visione profana del blues sorgeva negli anni ’60 da un sogno di libertà. Siamo abituati a identificarlo con l’espressione di gioie e di pene amorose oltre che di sentimenti condivisi da un’intera comunità, con una coscienza sociale e un desiderio di emancipazione che prendevano la forma di festosi pezzi danzabili e di struggenti ballate ad alta intensità emotiva. Era una musica inclusiva e istantaneamente comunicativa, che pur aperta a tutti (a comprare i dischi della Motown erano soprattutto i teenager bianchi) intendeva rivolgersi al popolo afroamericano. Sarà per questo che al classic soul e al funk anni ’70 che ne è figlio legittimo tornano a ispirarsi in tanti, in epoca di pandemia e di Black Lives Matter?
È un’ipotesi plausibile, se si osserva la parabola artistica di una giovane autrice e interprete come H.E.R., che modernizza la tradizione r&b innestandola su tematiche attinenti all’orgoglio black e alle battaglie civili. La ventiquattrenne californiana si è fatta apprezzare con Fight for You, offerta alla colonna sonora di un film, Judas and The Black Messiah, che racconta la storia del leader delle Pantere Nere Fred Hampton ucciso nel 1969 dall’F.B.I.; e con un pezzo, I Can’t Breathe, che citando esplicitamente nel testo Gil Scott-Heron (“the revolution will not be televised”) del Black Lives Matter è diventato una bandiera. Nel video promozionale che lo accompagna si susseguono i nomi e volti degli afroamericani vittime del razzismo e della violenza della polizia, immagini in bianco e nero di gente che marcia issando cartelli di protesta come ai tempi di Martin Luther King.
È la stessa comunità fiera ed esausta ritratta nel clip di Hopeful di Curtis Harding, un trascinante gospel rap che si sviluppa su una base musicale spudoratamente blaxploitation. Nato in Michigan, Harding è cresciuto ad Atlanta, città di forti tensioni razziali e disoccupazione alle stelle che proprio ora, nel post Covid-19, sembra avere trovato la forza per risollevarsi da una crisi economica devastante: è significativo che proprio da lì parta il suo messaggio di speranza e di solidarietà. In un altro video, realizzato per il singolo Can’t Hide It, il cantante e chitarrista lanciato da CeeLo Green veste i panni dell’ospite televisivo di uno show musicale anni ’70, sfoggiando occhialoni scuri e abbigliamento d’epoca: proprio come Bruno Mars e Anderson .Paak nei panni dei Silk Sonic, e che nel video di Smokin Out the Window si muovono sul set in sincrono come fossero gli O’Jays o qualche altro gruppo storico del Philly Sound. Nella loro ballata dolcemente ritmata non c’è nessun messaggio esplicito. Non c’è l’invocazione che Leon Bridges, voce suadente e vellutata come quella del suo idolo Sam Cooke, lancia insieme a Terrace Martin nell’electro soul di Sweeter, mentre la storia continua a ripetersi e avere una “pelle scura come la notte” ti espone a rischi e a sguardi inquisitori (“Le parole del King sono scomparse nel cielo come una farfalla?”, si chiede nel testo della canzone).
Partono da presupposti diversi e adottano stili differenti, ma tutti sembrano cercare nel passato un appiglio, un conforto, suoni e simbologie familiari che possano servire da bussola. In un’intervista concessa a Rolling Stone, Mars e .Paak spiegano che il loro progetto dichiaratamente old school non si sarebbe probabilmente mai concretizzato, non fosse stato per la clausura forzata, la condizione di disagio collettivo e il desiderio di fuga dalla realtà innescati dalla pandemia. Sono convinti che a volte basti una bella canzone per unire la gente e farla stare bene: un effetto balsamico simile a quello che producevano le hit degli O’Jays, dei Delfonics, degli Stylistics o di Harold Melvin & The Blue Notes.
Nel suo terzo album da poco uscito, Harding sembra evocare l’impegno civile e lo spirito ecumenico di Curtis Mayfield, la poesia di strada di Bobby Womack, il ricco e orchestrato sound di Isaac Hayes, lo psychedelic soul dei tardi Temptations e le chitarre elettriche dei Funkadelic. Anche lui usa suoni “classici” che arrivano dal passato, parole semplici e universali destinate a chi «ha bisogno di ascoltare ciò che le canzoni hanno da dire in questo preciso momento».
Ad Austin, quasi mille miglia di distanza da Atlanta, i Black Pumas di Adrian Quesada ed Eric Burton hanno fatto sensazione e raccolto premi con un disco di debutto che mischia il soul al rock elettrico, Jimi Hendrix a Otis Redding: il pezzo trainante si chiama Colors ed è un’ode a un mondo ideale in cui tutti i colori convivono in armonia. Anche loro evitano i proclami, e dichiarano di amare RZA e il Wu-Tang Clan quanto la psichedelia dei ’60, la Stax e la Motown. Non vogliono essere etichettati come un gruppo rétro ma è palese che i padri della black music restino per loro un riferimento imprescindibile come lo sono per Valerie June, che a Memphis, terra di origine del Southern soul, ci vive e che nel suo ultimo album The Moon and Stars ha voluto in studio una icona locale come Carla Thomas.
June è una scoperta di Dan Auerbach dei Black Keys, che a Nashville con il marchio Easy Eye Sound (studio di registrazione ed etichetta) coltiva un vivaio di vecchie glorie e di giovani talenti innamorati dell’r&b vintage. La punta di diamante è Yolanda Claire Quartey in arte Yola, inglese di Bristol e di pelle nera con un passato da corista e da homeless che sulla copertina del suo secondo album Stand for Myself sembra una diva anni ’70 pronta a scatenarsi sulla pista da ballo dello Studio 54. Nella musica dell’anima e nelle sue contaminazioni stilistiche country & pop ha trovato una forma di riscatto e di naturale espressione, senza preoccupazioni da purista: dichiara di amare Smokey Robinson e Minnie Riperton quanto Missy Elliot e il Buena Vista Social Club, allo stesso modo in cui Michael Kiwanuka, londinese di origini ugandesi, professa amore per Bob Dylan, Joni Mitchell, i Nirvana e gli Wham! oltre che per Ray Charles, Bill Withers, Pops Staples e i Funkadelic, cantando, in uno dei suoi pezzi più celebri, cosa significhi essere “un uomo nero in un mondo bianco”.
I confini diventano labili, le barriere saltano. Rimarcare un gap culturale con le generazioni precedenti non sembra rilevante quanto cercare un’identità comune e un senso di continuità storica, dopo che nemmeno la presidenza di Barack Obama è riuscita a spezzare un filo ininterrotto di violenze e di discriminazioni razziali. Patrisse Cullors, cofondatrice del Black Lives Matter, parla in fondo la stessa lingua di MLK, George Floyd è una vittima come Jimmie Lee Jackson, il diacono e attivista che nel febbraio del 1965 morì a Selma, in Alabama, sotto i colpi d’arma da fuoco di un agente di polizia. La musica di Cooke e di Aretha, di Mayfield e di Marvin Gaye, di James Brown e di Scott-Heron era la colonna sonora di un’epoca che in modo persino inquietante si riflette nel presente. Guralnick aveva ragione, non tornerà a essere quel che è stata: ma oggi riacquista forza e significato, e forse era destino che non restasse confinata negli archivi e nelle hall of fame, che si reincarnasse in nuovi corpi, in nuove voci, in nuove anime.