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L’addio tenero e appassionato di Herbie Hancock a «mio fratello» Chick Corea

Il pianista ripercorre per Rolling Stone mezzo secolo di amicizia e collaborazione: le session con Miles Davis, i duetti, un concerto indimenticabile a Montreux. E l'ultimo sogno: suonare insieme Mozart


Foto: Laurent Gillieron/Keystone/AP

In un altro campo, Herbie Hancock e Chick Corea sarebbero stati rivali. Nati a un solo anno di distanza l’uno dall’altro, hanno fatto parte entrambi della scena jazz newyorkese dei primi anni ’60. Per la fine del decennio erano diventati due fra i talenti più brillanti della loro generazione, nonché i musicisti meglio equipaggiati per traghettare il genere nell’era elettrica della fusion. Anche quando, nel 1968, Corea ha sostituito Hancock nella live band di Miles Davis, i due hanno continuato a coltivare una collaborazione e un’amicizia forti, che sarebbero andate avanti per oltre mezzo secolo, fino alla morte di Corea avvenuta una settimana fa.

Hanno lavorato per la prima volta assieme durante una delle session elettriche di Miles Davis. Insieme hanno costruito una ragnatela di linee di Fender Rhodes per album leggendari come In a Silent Way, Bitches Brew e On the Corner. Poi, nel 1978, quando erano bandleader e superstar affermate – Corea con il prog dei Return to Forever, Hancock con la space band Mwandishi e il funk degli Headhunters – si sono ritrovati per fare assieme un tour insolito in cui duettavano al pianoforte. Gli album CoreaHancock e An Evening With Herbie Hancock and Chick Corea: In Concert documentano performance sia straordinariamente equilibrate che selvagge e sperimentali, alimentate dall’ammirazione che provavano l’uno per l’altro e da una sana voglia di divertirsi.

Hancock e Corea si sono ritrovati spesso nel corso degli anni. A volte apparivano uno nei dischi dell’altro, altre hanno improvvisato sul palco con musicisti di ogni genere, da Carlos Santana a Stevie Wonder. Nel 2015 sono tornati in tour insieme. E avrebbero collaborato ancora a lungo, come spiega Hancock in questa riflessione sul loro legame professionale e umano.

La notizia della morte di Chick Corea è stata una mazzata. Non potevo crederci quando mi hanno chiamato dal suo ufficio, un paio d’ore prima che la notizia fosse di dominio pubblico. Non ne sapevo nulla. Non conoscevo nessuno che sapesse quanto fosse malato.

Non so dire con precisione quand’è che ci siamo incontrati per la prima volta, ma da qualche parte nella mia testa si sta formando un ricordo, forse era a una festa in cui c’era anche [il batterista] Jack DeJohnette…

Adesso vivo a Los Angeles, ma all’epoca stavo a New York. Girava voce che fosse arrivato un tizio nuovo in città: Chick Corea, un giovane pianista che suonava meglio di tutti gli altri. Così ho ascoltato Tones for Joan’s Bones e Now He Sings, Now He Sobs. Amavo quei dischi. Avevano swing, poesia, un gran suono e idee meravigliose. Non vedevo l’ora di incontrarlo.

[Quando ho scoperto che mi aveva rimpiazzato nella band di Miles], sapevo che aveva tutto per farcela. Ed è stato grandioso quando abbiamo lavorato insieme a Miles in studio: mi ha permesso non solo di replicare o essere influenzato dalle note che sceglieva, ma anche di seguire la direzione che Chick sceglieva in ogni momento, apriva porte verso idee diverse che, in qualche modo, mi completavano. Era una bella sfida per tutti, perché a volte suonavano contemporaneamente tre tastieristi. C’era anche Joe Zawinul, e dovevamo improvvisare – non riesco a usare la parola accompagnamento, preferisco parlare di ambiente – dovevamo creare un ambiente in cui potevano vivere organismi diversi: essere parte di quel modo di pensare era eccitante, nessun altro faceva qualcosa di simile.

Ci rispettavamo, imparavamo l’uno dall’altro. Non c’è mai stata alcuna animosità. Andavo a vedere i concerti di Miles con Chick nella band, era la prima volta che il piano elettrico veniva usato nei suoi concerti. Era un Rhodes Piano e a suonarlo c’era Chick. Io l’avevo suonato in alcuni dischi di Miles, ma mai dal vivo. Era grandioso. Lo amavo. Amavo anche i Return to Forever. Amavo quello che faceva. Vale lo stesso per la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin. Mi piacevano anche i Weather Report. Il termine jazz-rock era entrato nel vocabolario. Era una cosa nuova – l’influenza del rock sul jazz –, ma io non venivo dal rock, venivo dal funk, e nessuno lo aveva ancora contaminato con il jazz, ed è quello che ho fatto con gli Headhunters.

Credo che l’idea del tour in duo del ’78 sia stata sua. Ricordo la prima volta in cui ci siamo incontrati per capire cosa avremmo suonato. Sono andato a casa sua, a Los Angeles, dove c’erano due pianoforti a coda. È stato divertente, ci siamo messi a suonare – non ricordo il pezzo, forse uno standard – ed eravamo entrambi molto timorosi. Non volevo mettermi di mezzo nel modo di suonare di Chick e lui non voleva farlo con me. A poco a poco abbiamo iniziato a prenderci dei rischi, sempre di più, finché gli ostacoli sono spariti e ci siamo lasciati andare. Ridevamo, ci divertivamo da matti, ci stuzzicavamo e ci stimolavamo. Ci siamo fermati prima della fine del pezzo, ridevamo troppo. Ci siamo detti che forse non c’era poi bisogno di fare delle prove.

Ogni volta che toccava il piano, dentro di me si accendeva una luce. Sapevo subito cosa suonare o non suonare. Credo che per lui fosse la stessa cosa. Sembrava destino.

Chick è sempre stato un tipo giocoso. Nel suo modo di suonare c’erano gioia e allegria, era come un bambino che gioca con la sabbia. Mi rendeva felice, così gli proponevo qualcosa che potesse fargli lo stesso effetto. Eravamo come bambini. Suonare con lui mi ispirava e incoraggiava. Non c’è mai stata competizione, solo ispirazione che arrivava da due posti: dentro di me e da lui. Credo che la pensasse allo stesso modo.

Ci completavamo. Era facile trovare lo spazio per un assolo durante il duetto, Chick mi accompagnava e poi faceva il suo. E quando mi accompagnava, sentivo un supporto totale. Non restava sullo sfondo, era come se mi inviasse il suo incoraggiamento. Trovava sempre la soluzione giusta. Ero libero di volare ovunque volessi, lui riempiva gli spazi con tutto quello che era necessario perché la musica restasse coerente, dava supporto e sostanza armonica, anche suonando linee che apparentemente andavano nella direzione opposta. Era sempre una gioia. Rendeva tutto facile. È questo che non riuscivo a capire: come ci riusciva? Mi leggeva nel pensiero. Grandioso.

Lasciate che vi racconti di uno di quei concerti: suonavamo al Montreux Jazz Festival – ci siamo stati due volte, non di più, e quella volta siamo finiti a fare cinque bis. La gente non ci lasciava andar via. All’epoca, Chick era solito tirare o fermare le corde del piano mentre suonava una nota in modo da cambiare il suono. Ho cominciato a farlo anch’io: forse era lo scienziato che si nascondeva dentro di me, fatto sta che ero convinto che fossero ipertoni. Se fossi riuscito a piegare le corde nel modo giusto, avrei suonato l’ipertono giusto per ogni nota.

Quella sera sono finito sotto il pianoforte, suonavo la parte in legno. Chick era sopra il piano e faceva qualcosa con le corde. Il pubblico era fuori di testa. Ce li eravamo messi in tasca. Era divertente sperimentare quelle cose, era una sfida. Suonavamo e ci divertivamo, ma era una cosa seria. Ci pagavano, c’era un pubblico che aveva speso soldi guadagnati duramente per vederci. Non facevamo i pagliacci. Volevamo fare musica e allo stesso tempo divertirci. Che c’è di male?

Sapete cosa abbiamo fatto per il quinto bis? Eravamo dietro le quinte e Chick mi ha detto: «Dobbiamo tornare indietro, stanno ancora gridando». Ho risposto: «Ok Chick, perché non mettiamo due sedie di fronte al pubblico e facciamo dei giochi con loro?». È andata proprio così. Non abbiamo più toccato il pianoforte. Ci siamo seduti e abbiamo fatto tutto quello che ci veniva in mente: usavamo le parti del nostro corpo per suonare le percussioni, ci toccavamo la gola per fare dei suoni oscillanti. Abbiamo cercato di fare qualcosa di musicale e divertente e al pubblico è piaciuto. Poi ci siamo messi a fare dei gesti, a muovere il volto e le mani, senza produrre suoni. Una specie di balletto. Era diventato tutto molto strano, ma il pubblico l’ha adorato. Non lo dimenticherò mai. È un ricordo monumentale.

Dopo quel primo tour, cinque anni dopo ne abbiamo fatto un altro. Negli ultimi tempi abbiamo parlato spesso di farne ancora, di duettare fino alla fine delle nostre vite. Anche dopo i due concerti più recenti, Chick mi chiamava e diceva: «Ehi amico, quando facciamo il prossimo?». Poi se n’è andato.

La conversazione è iniziata con Chick che mi diceva di aver lavorato ad alcune composizioni di Mozart. Pensava che fossero divertenti, sapeva che da ragazzo l’avevo studiato e voleva trovare un modo per farci dei duetti. Gli ho detto che sarebbe stato fantastico, e forse il nostro prossimo tour sarebbe stato così.

Io e Chick eravamo come fratelli. Parlavamo come fratelli, ci incoraggiavamo, ci siamo sempre sentiti così. È sempre stato una persona amorevole. Incoraggiava tutti. Cercava sempre di condividere le sue conoscenze con i più giovani. Ed è sempre rimasto uno studente, con la voglia di imparare cose sempre nuove. Era anche in Scientology, anche quella sarà stata un’esperienza formativa. Abbiamo parlato spesso di religione, perché io gli raccontavo del buddhismo Nichiren, che pratico – faccio parte del Soka Gakkai International.

La maggior parte delle volte, però, si parlava di musica. Mai di politica o delle notizie del giorno. Lui aveva un atteggiamento particolare nei confronti dell’attualità. Non voleva farsi impantanare da quelle cose. Non era facile parlargliene, perché non seguiva le notizie sui quotidiani o in rete. Gli interessavano solo la musica, il cuore e il valore dell’arte, la sua importanza al fine di nutrire lo spirito. Su questo sono completamente in sintonia con lui.

Se penso alla personalità di Chick, la prima cosa che mi viene in mente è il suo atteggiamento positivo. Non l’ho mai visto comportarsi diversamente. Era sempre positivo, incoraggiante, voleva sempre divertirsi. E si preoccupava degli altri. Tutto qui. Ovviamente era coraggioso, doveva esserlo per fare certe scelte musicali ed esplorare così tante direzioni differenti. Voleva essere competente in tutte le forme musicali, dal pop al rock, fino ovviamente al jazz.

Quando penso a Chick penso a una persona con un gran cuore. Non abbiamo bisogno di altro: un gran cuore e la voglia di condividere quello che hai imparato e scoperto, così che tutti abbiano la possibilità di progredire. Ecco chi era davvero Chick.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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