Classic rock anti-trumpiano, techno emotiva, un inno alla solitudine che tutti abbiamo provato nel 2020, disco music da cameretta, sesso e bullismo, una canzone d’amore che contempla i punti di vista di due amanti, una grande cavalcata epica che contiene pezzi d’America. Ecco le migliori canzoni internazionali dell’anno selezionate dalla redazione di Rolling Stone.
15. “Try” Neil Young
Quarantacinque anni dopo la serata al Chateau Marmont in cui lo fece ascoltare agli amici, Homegrown, il disco perduto di Neil Young, è finalmente uscito dagli archivi. Rispetto a Tonight’s the Night – l’album “scelto” quella sera –, ha un suono più caldo, country, vicino alle atmosfere di Harvest, e testi ispirati alla separazione dall’attrice Carrie Snodgress. Try è una delle canzoni più ottimiste del disco: è un brano arioso e gentile che parla di riconciliazione, arricchito dalle armonie di Emmylou Harris e dalla batteria di Levon Helm. Il testo ha anche dei versi stranamente attuali, perfetto per l’anno della pandemia: “And I try to wash my hands / and I try to make amends / and I try to count my friends”. (Andrea Coclite).
14. “Jeanette” Kelly Lee Owens
Difficile spiegare il suono di Kelly Lee Owens a chi non ha ancora avuto il piacere e la fortuna di avvicinarsi. La producer e cantante inglese è un prodigio, la sua musica può farti viaggiare come penetrarti i sentimenti. Jeanette è l’emblema di una parte molto ampia della sua produzione, una techno emotiva che marcia dentro al cuore in cassa dritta. Kelly Lee Owens costruisce ambienti emozionali in cui lasciarsi sciogliere, dentro e fuori dal dancefloor. (Mattia Barro)
13. “Seven O’Clock” Pearl Jam
Se Gigaton è stato l’album della riascita artistica dei Pearl Jam, Seven O’Clock è probabilmente il brano che ne racconta meglio l’essenza. Non a caso posizionato al centro dell’opera, come spesso accaduto ad alcuni dei testi più intensi scritti da Eddie Vedder, Seven O’Clock non rappresenta solo la summa delle tematiche del disco, ma anche la migliore dimostrazione del livello di maturità raggiunta dal gruppo. Una fotografia impietosa della società americana, che si regge sull’ingiustizia sociale, sulla politica scellerata di Trump e che lascia che il pianeta si disintegri. Forse la cosa migliore della band da oltre vent’anni. (Luca Garrò)
12. “Good News” Mac Miller
Dopo un periodo funestato da drammi personali, depressione e dipendenze, Mac Miller sembrava essere tornato sui binari giusti, quelli che lo avrebbero condotto a diventare uno dei rapper più innovativi e interessanti del nuovo millennio. Purtroppo i suoi problemi lo hanno portato a una prematura morte nell’autunno del 2018. L’album a cui stava lavorando nei mesi precedenti, Circles, è uscito nel 2020, e brani come Good News sono un perfetto specchio del suo stato d’animo di quel periodo: un’amara riflessione su come spesso gli artisti siano trattati come saltimbanchi “che ci fanno tanto divertire”, e non come esseri umani dalla sensibilità rara. (Marta Blumi Tripodi)
11. “People I’ve Been Sad” Christine and the Queens
La nudità emotiva di Christine and the Queens è uno stato elettrico che si percuote dall’epidermide fino al centro del cuore. People I’ve Been Sad è una struggente ballad pop, una fondamentale dichiarazione di tristezza. Tutti nella vita siamo e saremo tristi: non c’è trucco. Ed è vero gente, anche io sono stato triste. (M.B.)
10. “Don’t Start Now” Dua Lipa
Dua Lipa è la popstar dell’anno, no dubbi a riguardo. La sua musica è S-E-X-Y, upbeat, contemporanea nel suo continuo riferirsi ai grandi momenti musicali dei ’70 e degli ’80. Don’t Start Now è un brano con una composizione davvero minimale, tutto groove basso-batteria (come riportato in voga da Mark Ronson) e – oddio – il pre-chorus più hot dell’anno. In sintesi, è la dose giornaliera di presa bene nell’anno più disastroso di questo millennio. Il rimedio pop per fuggire dalla realtà. (M.B.)
9. “My Future” Billie Eilish
Complice la melodia per nulla scontata e l’arrangiamento minimal e carico di atmosfera della prima strofa, se My Future fosse uscito cinquant’anni fa sarebbe entrato di diritto a far parte della categoria degli standard jazz. Ha l’innegabile pregio di aver regalato a Billie Eilish una veste meno monocorde rispetto a quella dei singoli precedenti, ma soprattutto rappresenta una ventata di novità in termini di contenuti. E tra le mille roboanti dichiarazioni d’orgoglio e indipendenza femminile che la musica pop ha sfornato in questi anni, è una delle migliori e più credibili canzoni d’amore nei confronti di se stessa che sia mai stata pubblicata. (M.B.T.)
8. “WAP” Cardi B, Megan Thee Stallion
Acronimo di Wet Ass Pussy, la canzone più oscena e pruriginosa dell’anno ha una sola vera colpa: quella di essere firmata da due donne. È abbastanza evidente, in effetti, che se le stesse barre più che esplicite fossero state contenute nelle strofe di due rapper uomini, ben pochi si sarebbero scandalizzati. Ivi compresa l’ultradestra americana, che ha trasformato questo brano in un caso politico, tirando in mezzo nel dibattito sociologi, ginecologi, femministe e Partito Repubblicano. Non verrà senz’altro ricordata per sottigliezza e buon gusto, ma una cosa è certa: è già passata alla storia. (M.B.T.)
7. “Bad Decisions” The Strokes
Sarà perché il tappeto di synth che reggeva la precedente At the Door ci aveva lasciato con un po’ di nostalgia dei vecchi Strokes o forse solo perché avevamo bisogno di ritrovare una delle band che aveva segnato maggiormente gli anni Zero, ma Bad Decisions ha decisamente lasciato il segno. La scelta furbissima di aggiungere nel refrain la citazione, con tanto di crediti, di Dancing With Myself di Billy Idol ha fatto il resto. Nei giorni successivi, album alla mano, avremmo scoperto che gli Strokes non avevano alcuna intenzione di vivere di ricordi, ma per qualche giorno è stato bello pensare si potesse trattare di una raccolta di decisioni sbagliate. (L.G.)
6. “Kyoto” Phoebe Brdigers
Phoebe Bridgers ha scritto Kyoto durante il suo primo viaggio in Giappone. È la canzone più movimentata di Punisher, quasi gioiosa rispetto alla cupezza che caratterizza il resto del disco, con un arrangiamento più ricco di quello che sembra (ci sono fiati, mellotron, un piccolo coro). Se avete dubbi su quanto possa funzionare la scrittura di Bridgers fuori dall’emo folk, questa canzone li cancellerà. (A.C.)
5. “Shamekia” Fiona Apple
Si sa, i ricordi dell’infanzia portano spesso con sé fantasmi da cui solo anni di terapia riescono a salvarci. In Fetch the Bolt Cutters Fiona Apple si mostra ancora una volta capace di raccontare la propria vita e gli aspetti più tragici di essa senza filtri, ma con una certa dose d’ironia e senza mai apparire patetica. Il racconto del suo rapporto con i bulli della scuola, reso con un ritmo quasi vaudeville, è uno dei capolavori psico-musicali dell’anno. La ciliegina sulla torta? Fiona che incontra dopo una vita la vecchia amica che l’aveva aiuta a credere in se stessa e che, a sua volta, scrive un pezzo con la sua versione dei fatti. (L.G.)
4. “Cut Me” Moses Sumney
Cut Me è la prima traccia di græ ed è perfetta per scoprire la bellezza del falsetto di Moses Sumney, la ricchezza degli arrangiamenti (qui con Oneohtrix Point Never e gli Adult Jazz), la scrittura libera che porta ogni melodia in direzioni inaspettate. È una canzone che parla di rivelazioni nate nel dolore. «È la mia versione di un vecchio pezzo soul», ha detto Sumney alla BBC. «Quando la scrivevo volevo omaggiare la miglior cantante di tutti i tempi, Aretha Franklin». (A.C.)
3. “Blinding Lights” The Weeknd
Cosa si può dire ad un brano che, su Spotify, ha raggiunto un miliardo e ottocento milioni di ascolti? Blinding Lights è una manata in faccia direttamente dagli anni ’80, un drittone di quelli belli come si facevano ai tempi, con la voce inconfondibile di The Weeknd e un refrain killer che sembra scritto dagli A-ha. Spudorato, sfacciato, sexy. Cosa altro possiamo chiedere a The Weeknd? Niente, anche perché pure il videoclip è una bomba. (M.B.)
2. “Exile” Taylor Swift feat. Bon Iver
Se esiste un brano perfettamente in grado di spiegare l’incomunicabilità tra due persone che si sono lasciate e ancora non riescono a decidere di chi sia la colpa, è Exile. La versione di lui (prima strofa) e quella di lei (seconda strofa) culminano in una serie di recriminazioni e accuse intrecciate magistralmente nel bridge, in cui la voce pulita e un po’ incolore di Taylor Swift e lo struggente timbro malinconico di Justin Vernon danno il meglio di sé. Una di quelle canzoni da ascoltare in loop quando si ha il cuore spezzato – e a quanto pare sono in tanti ad averlo di questi tempi, perché è una delle tracce più ascoltate e apprezzate di Folklore. (M.B.T.)
1. “Murder Most Foul” Bob Dylan
A otto anni dall’ultimo inedito, Dylan sveste i panni di Frank Sinatra e riparte in qualche modo da dove aveva lasciato. Nella sua missione di ridefinire le coordinate culturali della tradizione americana, dopo aver narrato della tragedia del Titanic in Tempest, Dylan sceglie di rievocare l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy. E lo fa con gli stilemi che ne hanno caratterizzato l’ultima fase della sua carriera. A partire dal riferimento shakespeariano del titolo, i 17 minuti del brano mischiano autobiografia e storia americana fino farle coincidere. Il tutto attraverso una ballata epica, quasi omerica, piena zeppa di citazioni e racconti degli eventi principali della seconda metà del Novecento. Che a loro volta diventano storie nella storia. Se non stupiscono i riferimenti a eventi e personaggi vissuti in prima persona (l’avvento dei Beatles, l’autoisolamento a Woodstock), più difficile era immaginare Dylan citare tanto Freddy Krueger (A Nightmare On Elm Street) che il Freddie Mercury di Another One Bites the Dust. (L.G.)