Michael Stradford osserva una fotografia scattata a New York nell’estate del 1959. Miles Davis e sua moglie, lui con le manette ai polsi, sangue sulla giacca e sulla camicia, qualche cerotto in testa, tagli da cinque punti di sutura. Lei, furiosa, gli artigli di fuori e il ringhio rivolto ai tre agenti di polizia che avevano colpito suo marito, senza una vera giustificazione. La domanda di Michael non riguarda la dinamica dei fatti, né le polemiche nate quando il jazzista statunitense si è beccato una denuncia che aveva dell’assurdo. Il suo interrogativo, a un primo ascolto, può apparire frivolo, ma ha diverse dimensioni da offrire. Eccolo: in una situazione simile, come faceva Miles a mostrare così tanto stile e a sembrare così figo?
Stradford ha alle spalle una carriera che l’ha visto, fra le altre cose, al servizio della Sony Pictures Home Entertainment, oltre che impegnato in un vasto numero di iniziative radiofoniche. Dalla sua domanda è nato il libro Miles Style: The Fashion of Miles Davis, in uscita oggi. Un testo che l’autore ha ricamato grazie a una serie di interviste con musicisti, personaggi dello spettacolo e amici. Accademici, addirittura. Per raccontare come l’uomo che avrebbe affermato di aver cambiato per almeno cinque o sei volte la musica, perché così vuole la leggenda, sia riuscito ad affermarsi anche come icona di stile.
Specchiando nel guardaroba e negli atteggiamenti le sfumature che hanno accompagnato la sua evoluzione musicale. Da East Saint Louis ai club della Grande Mela, da spalla a band leader, mentre la voce della sua tromba filava sul pulsare acustico e arrogante dell’hard bop, sulla psichedelia degli intrecci sonori che hanno caratterizzato la sua svolta elettrica, sul palco di mecche rock come il Fillmore East. Nel frattempo: dai completi sobri e impeccabili degli inizi all’ampia varietà di tinte e forme di fine carriera, all’insegna della stravaganza. Passando per mise più casual e parentesi estrose, fantasiose, quasi sfacciate. Raccontare una storia per tramandarne un’altra, insomma. Perché parlare dell’abbigliamento di Miles Davis significa anche attraversare il campo minato della questione razziale, quello psicologico dell’affermazione di un ego. Le battaglie di un uomo, la stazza di un artista che non voleva scendere a compromessi. E tanto di più.
L’autore utilizza voci che sono fibre diverse: cotone, lana, poliestere. Le testimonianze di persone che Miles l’hanno conosciuto e forse consumato, come gli uomini del music business. Altre che l’hanno subìto, alcune delle sue compagne per esempio. Figure che lo incontravano ogni tanto, i suoi sarti tanto per nominarne alcuni. Ognuna pronta a parlare dal comfort del proprio habitat. Uffici, laboratori, salotti. Per un viaggio indietro nel tempo. Negli States, patria del jazz.
Si entra, per esempio, nella bottega di Charlie Davidson, proprietario dell’Andover Shop di Cambridge, nel Massachusetts. «Realizzavo i completi per tutti i membri della band», ricorda riferendosi agli anni ’50, a quella che sarebbe la seconda fase ‘estetica’ del jazzista, fanatico del fatto a mano e su misura. La prima si era consumata all’insegna dell’abbondanza: giacche con le spalline, risvolti esagerati, cravatte larghe, pantaloni ampi, che di cosce probabilmente ce ne stavano due per gamba. Nel secondo periodo, in termini di misure, c’è stata una sottrazione: forme più contenute e meno svolazzanti, via le spalline dalle giacche e risvolti più piccoli. Bottoni per tenere giù il colletto della camicia. Ai piedi, magari, un paio di mocassini. Occhiali da sole. A volte un foulard al collo, a sfiorare la tromba laccata.
«Miles non si fidava troppo dei gusti degli altri componenti della band, così dei loro completi ci occupavamo io e lui insieme», prosegue Davidson dell’Andover Shop di Cambridge. L’uomo che ha firmato dischi come Kind of Blue e Sketches of Spain era esigente: «Sapeva cosa voleva». La lunghezza delle maniche, per esempio. «Era un tipo complicato, in questo senso. Parlava poco, faceva parte del suo personaggio». Il suo fisico: «Quello di un peso leggero della boxe, spalle robuste, snello in vita».
Il pugilato, già. Una delle discipline predilette da Miles. Frances, la donna al suo fianco nella foto scattata durante l’arresto innaffiato di sangue del 1959, pensa che l’ex marito, se non fosse diventato un musicista, sarebbe stato un animale da ring. La loro coppia faceva scintille, nella New York degli anni ’50. Sul finire del decennio, sottolinea Stradford nel libro, Miles era influenzato dallo stile italiano proiettato nel mondo da figure come Marcello Mastroianni, Sophia Loren e Gianni Agnelli. Sì, proprio il boss della Fiat. Nei mesi caldi, quindi, giacche in cotone a righe verticali, niente cravatta, il primo bottone della camicia slacciato.
Lei, Frances, ballerina professionista dai gusti raffinati. Lui, Miles, star del firmamento jazz. Le mani sul volante della Ferrari con cui la coppia si spostava a Manhattan. Un’immagine da cornice e comodino, oppure la cover di un mensile di moda. Ma fra le mura di casa crescevano le tensioni. Miles aveva forzato la moglie ad abbandonare la carriera: «Lo accompagnavo spesso da Mario, il suo sarto dell’epoca. Io invece andavo a fare acquisti da Jax, che era il posto ‘in’ per antonomasia». Ci andava pure Marilyn Monroe, ricorda Frances. «Quando Miles scoprì che mi rifornivo lì, iniziò ad andarci per farmi dei regali». Spesso, erano abiti sexy. Corti, parecchio. «Ma se poi li indossavo per uscire mi chiedeva dove credevo di andare. Avevo due gambe da urlo, sapete». Una curiosità: «Quando mi ero ridotta a essere la sua cuoca, dopo essere stata costretta a interrompere la carriera, stavo ai fornelli con gonne corte e tacchi a spillo».
Uno dei lati bizzarri, questo, dall’intimità di una figura descritta a tratti come lunatica e oscura. Anche Lenny Kravitz ha avuto un’impressione particolare, di Miles. Il jazzista era un amico dei suoi genitori: «Lo trovavo misterioso e dark, non in senso negativo, ma piuttosto profondo, in quanto a tono e vibrazioni. Quando entrava in una stanza, il clima cambiava».
La descrizione di Andrea Aranow, che per Miles ha realizzato alcuni capi a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, è più netta rispetto a quella di Kravitz. «Con lui erano sempre alti e bassi, faceva parte del suo temperamento, con l’abbigliamento come con tutto il resto». Il mood di Miles, per quella che è stata la sua esperienza, viaggiava sulle montagne russe: «Quando entrava dalla porta del mio negozio non sapevo cosa aspettarmi».
In coda agli anni ’60 Miles era sposato con Betty Davis, scatenata anima funk e modella, spesso indicata come la figura che avrebbe indirizzato il jazzista in maniera definitiva verso la svolta elettrica di quel periodo. «Ascoltava semplicemente quello che mettevo sul giradischi. Se qualcosa gli piaceva, me lo diceva. Jimi Hendrix, Otis Redding, Sly Stone, James Brown». Se era il marito a scegliere, era soprattutto classica: «Rachmaninoff, Stravinsky, Mozart».
In quel periodo sul fisico di Miles spuntarono Dashiki africani dalle trame tribali, camice di seta con tinte sgargianti, pantaloni scamosciati. Oltre a pelli esotiche, come quelle di serpente. «Non penso di averlo influenzato nel cambio di stile del guardaroba», prosegue Betty. Erano i suoi gusti in quel periodo, semplicemente: «Penso che in questo senso l’evoluzione nell’abbigliamento abbia in qualche modo preceduto quella musicale». Non li voleva indossare più, i completi eleganti: «Si era stancato».
Dagli abiti abbondanti degli esordi allo stile più asciutto degli anni ’50, dalle influenze italiane alla svolta flower power, fino alle stravaganze dell’ultimo periodo, quando poteva sembrare stesse indossando i primi vestiti raccolti dopo aver messo delle dinamite nell’armadio. Questo, Miles Davis. Sul palco per affermare se stesso. Chi era, cosa faceva, come lo faceva, per chi. Da Birth of the Cool a Kind of Blue, da Miles Ahead a Bitches Brew, fino a You’re Under Arrest e Tutu. Un album, questo, nel quale si sente la mano pesante di Marcus Miller, bassista che con Miles ha condiviso molto: in sala prove, on stage, nel privato. Secondo lui, l’evoluzione nel modo in cui si presentava in pubblico riguardava una sorta di affermazione: Davis veniva da un’epoca in cui per lavorare nel mondo dello spettacolo i neri dovevano offrire un’immagine allegra, sempre sorridente. «Miles detestava questo aspetto. Parlo del fatto di essere degli intrattenitori e non degli artisti». A fare da rottura, l’emergere del bebop. «È stato un vero movimento, quello. Essere artisti, avere un proprio linguaggio e un proprio stile di vita, che non si cura di sorridere o intrattenere». Vestirsi in un certo modo per presentarsi in maniera seria e sofisticata. Una piccola rivoluzione. Una tendenza che Miles sembra aver portato sempre con sé, lungo i decenni.
«Nel 1985 era fissato con il giapponese Kohshin Satoh. Spalline, colori luminosi e brillanti, tessuti particolari, scarpe da pazzi», prosegue il bassista. Lui e Miles avevano misure simili, dal punto di vista di un sarto. E così, Davis usava il collega come modello: «Succedeva che andavo a casa sua a New York per lavorare su qualche pezzo. E quando avevamo finito lui mi diceva: ‘Dai, proviamo dei vestiti’. Siccome eravamo di stazza simile, li faceva indossare a me e poi mi squadrava insieme ai suoi amici per decidere se gli piacevano o no. Guardava un capo e diceva: ’No, questo non mi piace. Tienilo tu’. Insomma, quello che non gli piaceva veniva a casa con me. Ed era roba costosa». Dietro questa storia c’è una lezione: «Ho capito che indossare quella roba per me non funzionava. Non ti puoi vestire come un altro, parlare come un altro o suonare come un altro. Se sei un vero artista, devi trovare la tua strada».