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L’incontro fra rap e dance è la rivincita degli emarginati

Un numero crescente di artisti utilizza basi dance commerciali. Ha a che fare col fenomeno da esportazione chiamato italo dance, ma è anche una questione generazionale e di affinità fra perdenti che ce la fanno

Foto press

La settimana scorsa Shiva, uno dei rapper emergenti più lanciati del momento, ha annunciato due remix internazionali per la sua ultima hit Auto blu: uno con la svedese-sudafricana Nea e l’altro con il kosovaro-tedesco Ardian Bujupi. Il singolo, arrivato nel giro di poche settimane al disco di platino, per alcuni rappresenterebbe una piccola rivoluzione nel rap di casa nostra, perché campiona – anzi, riprende con tanto di featuring degli autori originali – una delle principali hit della dance italiana anni ’90: Blue (Da Ba Dee) degli Eiffel 65. Un brano che ai tempi della sua uscita era arrivato in cima alle classifiche di tutta Europa, cosa che rende particolarmente sensata l’idea di produrre dei remix con artisti stranieri.

Anche se il suo è senz’altro uno dei brani che ha avuto più successo, Shiva non è certo il primo ad attingere alla dance di quel periodo. Lo ha fatto Anna per la sua Bando, che non è basata su un campionamento, ma si ispira a quelle atmosfere; lo ha fatto Gué Pequeno la scorsa estate con Montenapo, in cui i 2nd Roof usano un sample di Gypsy Woman di Crystal Waters; lo ha fatto perfino Fedez (per quanto nel suo caso sarebbe più opportuno parlare di musica leggera, ormai) nel singolo Bimbi per strada, che riprende la celeberrima Children di Robert Miles.

Chi segue il rap italiano da tempo sa bene che le incursioni in territorio dance esistono fin da tempi non sospetti. Marracash aveva omaggiato Arriva arriva, tamarrissima hit del 1995 targata Z100, nella sua Quello che deve arrivare (arriva arriva) del 2010. Nello stesso anno Don Joe campionava un brano techno per Spacco tutto dei Club Dogo. Prima ancora di loro, nel 2007, i Crookers (che ai tempi erano ancora un duo composto da Phra e Bot) insieme a Bassi Maestro lanciavano nella stratosfera la loro Limonare, forse uno dei primi esempi di canzone virale ante litteram, dichiaratamente ispirata alla deep house. Come loro, anche i Two Fingerz hanno costruito buona parte della loro carriera sulla commistione tra rap e musica da ballare, e lo stesso vale per un produttore come Mace. Insomma, si tratta di una tradizione lunga e radicata. Secondo molti artisti, però, potrebbe essere proprio questa la nuova tendenza del rap italiano: meno trap che strizza l’occhio ad Atlanta o a Chicago, più tormentoni da tagadà o da discoteca. Lo ha affermato di recente Salmo, che per primo si è lanciato nell’impresa con la sua Ho paura di uscire del 2018. Lo ha sottolineato Don Joe, che nella sua biografia Il tocco di Mida del 2019 racconta della grande influenza che la dance ha avuto sulla sua formazione musicale. Lo ha ribadito anche Big Fish nel suo libro Il direttore del circo, appena uscito, in cui prevede che nel prossimo futuro ci sarà una commistione sempre più marcata tra rap e dance.

Indipendentemente dai gusti personali, il fatto che questi due generi abbiano un rapporto sempre più stretto è una bella notizia, perché si tratta di un fenomeno prettamente italiano. Il che, tradotto in parole povere, vuol dire che gli artisti di casa nostra non si stanno limitando a fotocopiare il sound che in questo momento va di moda all’estero, ma stanno creando qualcosa di unico e caratteristico. Sia chiaro, non abbiamo certo inventato il crossover tra hip hop e musica elettronica: quello esiste da sempre e si è sviluppato in ogni direzione possibile, da Afrika Bambaataa che campiona i Kraftwerk a città come Chicago, Detroit, Londra o Parigi, dove le rispettive scene si sono intersecate a più riprese. Ma nessuno ci batte quando si tratta della nostra passione nazionale per la dance cosiddetta “commerciale”, un filone orecchiabilissimo, melodico e apparentemente poco nobile che partendo dalle discoteche di provincia, dai luna park e dalle autoradio è riuscito a farsi strada ovunque nel mondo.

Fuori dai nostri confini è nota come italo dance, ed è uno dei generi da esportazione per cui siamo più conosciuti: hit senza tempo come Please Don’t Go dei Double You, The Rhythm of the Night di Corona, Free from Desire di Gala o Bla Bla Bla di Gigi D’Agostino sono da sempre un biglietto da visita d’eccezione per l’industria discografica del nostro Paese. E curiosamente, l’unico genere musicale che dagli anni ’90 a oggi è riuscito a replicare quegli straordinari risultati – almeno senza dover contare sulla nostalgia degli emigrati o sul bel canto – è proprio il rap italiano. Non succedeva da tempo che un artista nostrano fosse in classifica in moltissimi Paesi stranieri (Sfera Ebbasta), mettesse insieme un tour all’estero di una ventina di date (Salmo), inanellasse remix e singoli internazionali uno dietro l’altro (Ghali e Capo Plaza).

Non stupisce, quindi, che rap e dance made in Italy si siano a un certo punto mescolati, unendo le forze per ottenere una potenza di fuoco ancora maggiore. In realtà, però, dietro a questo trend non si nasconde necessariamente una mossa strategica: la “commerciale” è nel dna di quasi tutti i rapper italiani. Quelli più navigati, cresciuti negli anni ’90 e nei primi anni ’00, l’hanno conosciuta e assimilata quasi per necessità. All’epoca gli eventi hip hop erano relativamente pochi, così come i fan del genere, e chi cresceva in periferia o in provincia si trovava forzatamente trascinato dalla propria compagnia a trascorrere le serate in luoghi dove la musica suonata era solo quella: discoteche, giostre, sale giochi, pub. Impossibile liberarsi di quel retaggio; come capita alle vittime della sindrome di Stoccolma, anche chi da ragazzino si sentiva perseguitato da cassa dritta e synth melodici ha finito per innamorarsene crescendo, man mano che diventavano la colonna sonora dei ricordi più spensierati. E c’è anche un’affinità ideologica tra i due generi, che per anni – e in parte ancora oggi – sono stati bollati da snob e puristi come un’aberrazione, la negazione del vero talento, o nella migliore delle ipotesi musica di serie B prodotta da truzzi ignoranti che non sapevano suonare nessuno strumento.

Il discorso è leggermente diverso per le nuove generazioni, responsabili dell’esplosione della trap in Italia: nel periodo d’oro della italo dance avevano solo pochi anni, ma senz’altro non hanno potuto fare a meno di notare alcune similitudini a livello di sound. Nel 1999 Blue (Da Ba Dee) è stata una delle prime hit nostrane a utilizzare massicciamente l’AutoTune, un dispositivo che ai tempi era quasi eretico e che sarebbe stato sdoganato definitivamente solo dai trapper di nuova generazione. Campionandola, Shiva chiude un cerchio, così come l’aveva chiuso ai suoi tempi Marracash rifacendo Arriva arriva, un vero inno degli zarri. Considerato l’apoteosi dell’abbruttimento dai critici e da una larga fetta di ascoltatori italiani, divenne un vero e proprio tormentone. Il testo era semplicissimo ma di un’efficacia rara: “Arriva arriva quello che deve arrivare / non ti preoccupare, non ti preoccupare”, seguito dalla geniale coda “Non arriva più quello che doveva arrivare / preoccupati pure, preoccupati pure”.

A metà anni ’90 era letteralmente sulla bocca di tutti: a scuola, sulla pista da ballo, negli stadi, nelle piazze. Con buona pace di quelli che non si capacitavano del fatto che i giovani fossero passati da osannare i capolavori di Battisti, Guccini e De André a cantare in coro filastrocche stereotipate su martellanti basi techno. Pochi anni dopo, si sarebbero scoperti ancora più sconsolati constatando che il rap era diventato il genere più ascoltato e venduto del momento, e oltretutto (a differenza di quanto è successo a Z100 e Eiffel 65, purtroppo per loro) era pure elevato al rango di arte, poesia, nuovo cantautorato. È la rivincita degli underdog che, in barba ai pregiudizi, riescono ad arrivare in vetta. E che una volta lassù, anziché ammirare il panorama, aiutano altri underdog a riconquistare la cima.

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