Chissà come sarebbe il mondo, per lo meno quello del rock, se alla metà degli anni ’90 Bob Dylan e Michael Stipe non avessero insistito fino allo sfinimento per far salire nuovamente Patti Smith su un palcoscenico. Sì, perché lei, dopo essersi ritirata a vita privata due volte, l’ultima delle quali dopo la scomparsa dell’adorato marito Fred “Sonic” Smith, aveva deciso che nella sua vita non ci sarebbe stato più spazio per la musica. La spinta che le era giunta da Jim Morrison, che l’aveva portata a fondere come mai nessuno prima (Jim compreso) poesia e musica, sembrava finita, esaurita sotto il peso di una vita che le aveva dato tutto, ma che aveva voluto in cambio troppo. A un certo punto sembrava quasi che a ogni soddisfazione artistica dovesse fare da contraltare una perdita affettiva.
Forse anche per questo, dal ritorno sui palchi a oggi, la prima immagine a formarsi nella mente dopo uno dei suoi show è quella di amore puro, totale e totalizzante. In ogni forma immaginabile. Un amore incondizionato verso la vita, verso il pianeta e il genere umano, ma non scevro da rabbia e sfuriate capaci, questa sera per lunga parte dello show, di farci intravedere cosa doveva essere un concerto della prima Patti. E dire che negli ultimi anni l’avevo vista molte volte, in contesti diversissimi uno dall’altro, ma mai avevo visto in lei quel fuoco, quello sguardo capace di ipnotizzare che ho visto ieri sera.
A colpire della data di Roma è stata proprio l’energia, la forza che ormai pensavo fosse relegata al passato. Forse era stato l’ultimo passaggio nella capitale a lasciarmi un po’ di amaro in bocca. Seppur in formazione rock come all’Auditorium, infatti, nell’ottobre scorso Patti mi era sembrata per la prima volta vecchia, a tratti quasi spaesata. Certo, per una come lei, due anni di isolamento totale non potevano non avere conseguenze, ma l’idea che si stesse lentamente avviando verso il declino, lo ammetto, mi aveva attanagliato a lungo. La partenza dimessa di Greatful, per altro lo stesso brano con cui aveva iniziato quella volta, mi era dunque sembrato confermare i miei timori. Poi, da lì a un paio di canzoni, la svolta.
Tutto cambia nel momento in cui Patti decide di omaggiare Allen Ginsberg declamando Footnote to Howl: «Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! Holy! The world is holy! The soul is holy! The skin is holy! The nose is holy! The tongue and cock and hand and asshole holy! Everything is holy! everybody’s holy! everywhere is Holy! everyday is in eternity! Everyman’s an Angel!». La sensazione è quella di trovarsi di fronte a un rito e ha l’effetto immediato di un incantesimo, non solo per il pubblico. Smith pare trasformata, quasi posseduta. Fino ad allora calma e quasi immobile, inizia a danzare con movimenti che a tratti ricordano Jim Morrison. Diventa una cosa sola con noi. Ora è senza freni, ride così forte cantando da dover interrompere i brani, ci grida di essere felici, ci invita a prendere in mano la nostra vita e fermare lo scempio che stiamo facendo del pianeta. Diventa persino sexy, muovendosi sinuosa e facendosi attraversare completamente dall’estasi. E pensare che qualche mese prima l’avevo pensata sulla via del rincoglionimento.
Gli omaggi proseguono per tutta la serata, con una versione devastante, quasi punk, di The Wicked Messenger di Bob Dylan, una straziante After the Gold Rush di Neil Young e una rilassata Walk on the Wild Side, durante la quale Patti decide di farsi le trecce. Se fino a pochi minuti prima avresti avuto paura ad avvicinarti a lei, ora fa così tenerezza che vorresti stringerla fortissimo. La furia che l’aveva pervasa fino a lì lascia quindi spazio a un’altra artista, che ora legge L’infinito di Leopardi e consegna dei tappi per le orecchie a un bimbo, rimproverando i genitori per non averci pensato prima di portarlo al concerto.
Prende fiato Patti, è evidente che ha dato tutto e sembra un nativo americano appena uscito da un viaggio sciamanico, un curandero stremato dopo una seduta di guarigione. Poi riparte, piano piano, dando ad intendere che si tratti di un nuovo climax che culminerà con i classici che tutti vogliono sentire. Se Because the Night emoziona ma, tutto sommato, si mantiene su livelli standard, è con Pissing in a River e Gloria che i livelli tornano fuori dalla portata del 90% delle band in tour in questo momento. In particolare la prima, forse la più grande performance che le abbia visto fare in tanti anni. «Ho sempre pensato di dover portare avanti la missione di Jim Morrison», mi disse anni fa. «Quella di far vedere quanta poesia ci fosse nel rock’n’roll e quanto rock’n’roll nella poesia. Ho cercato di farlo nutrendomi tutta la vita di quello che amavo e cerco di fare la stessa cosa con le persone che amo e con il mio pubblico».
Forse solo stasera ho compreso il significato di quelle parole. A un certo punto, sul finire dello show, qualcuno si rivolge a lei dicendole «morirei per te». Patti, che inizialmente non aveva compreso le parole del fan, risponde a metà tra il monito e la ramanzina: «No, per l’amor di Dio. Vivi, ama e fai delle buone letture. Voi siete il futuro e il futuro è oggi». Poi tossisce più volte, si scusa e aggiunge: «Allen direbbe: cough is holy».