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Addio NOFX, e grazie per tutte le scarpe che vi siete presi

Il tour d’addio si è fermato per due date al Carroponte vicino a Milano dove i californiani hanno suonato ogni sera tre dischi differenti (più o meno). Festa punk-rock, stand-up comedy, sagra di paese. Sempre meravigliosamente uguali a se stessi

Foto: Thomas Cooper/Getty Images

Punk. Pop-punk. Punk-rock. Skate punk. Hardcore melodico. Ognuno lo chiama in maniera differente, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che fra i maestri del genere un posto d’onore spetti ai californiani NOFX. Armati di sensibilità pop, carisma e capacità di scrittura, in termini tanto di melodia quanto di testi, non hanno mai ceduto alle lusinghe del mainstream, rimanendo fieramente indipendenti mentre sullo sfondo si consumava la transizione del genere verso ambiti pop, grazie al successo inaspettato e clamoroso dei conterranei Offspring e Green Day.

Nel quarantennale della carriera hanno annunciato il ritiro dalle scene e un tour di addio in un giro del mondo e nella nostalgia, con 40 città scelte per ospitare altrettanti concerti focalizzati su sei dischi della produzione del quartetto, rappresentati in 40 canzoni. Il tutto spalmato in due sere per città, con tre dischi replicati per ogni concerto. La doppia data italiana di questo tour finale (col tempo sapremo se è veramente tale) si è tenuta al Carroponte di Sesto San Giovanni, vicino a Milano, dove in migliaia sono accorsi per salutare la band un’ultima volta.

La prima serata, sold out, è dedicata a Punk in Drublic, Pump Up the Valuum e Wolves in Wolves’ Clothing. Il concerto inizia come un pezzo di stand-up comedy e termina come una sagra di paese: nel mezzo ci sono 40 anni di canzoni, di improbabili inni generazionali, di talento, di mestiere, di sudore e chilometri, dipendenze e rehab. Introdotti da Time Warp dal Rocky Horror Picture Show, i NOFX conquistano il pubblico dal primo istante. Brani senza tempo come The Brews, Bob e Linoleum vengono alternati ad amenità e buffonerie che da sempre accompagnano le esibizioni dal vivo di Fat Mike e soci, con scorrettezze verbali che tirano in ballo l’ex presidente Bush, Sheryl Crow, gay bar messicani e L’italiano di Toto Cutugno.

I dischi non vengono eseguiti nella loro interezza e questo lascia spazio a divagazioni inattese come la minimale Fuck the Kids, Green Corn o Hobophobic, unico brano scelto per rappresentare lo snobbatissimo Heavy Petting Zoo. La band è in palla, i NOFX paiono quelli dei bei tempi andati, sempre meravigliosamente uguali a se stessi. Anche il pubblico è quello dei bei tempi andati, protagonista di un raduno generazionale. «Siete il Texas d’Europa», sentenzia El Hefe. «No, sono la Florida d’Europa», lo corregge Fat Mike. È difficile non farsi prendere dalla nostalgia con la tripletta Leave It Alone, The Cause e Perfect Government che scatena il pogo e in un attimo è di nuovo il 1994 e pure se il tuo addominale di gioventù è stato sostituito da una più sincera buzza da birra, lo sai che devi buttarti nel mezzo per i ragazzi di Los Angeles. E poco importa se la tua ragazza ti ha lasciato, se la tua vita fa schifo o se il tuo estratto conto somiglia più alla rilevazione di una temperatura scandinava, è il momento di tributare il giusto omaggio ai NOFX, di restituire loro tutto quello che hanno fatto e che hanno rappresentato per te in gioventù.

Come fai a perderti quest’ultimo sgangherato valzer? Impossibile. E infatti il concerto che è già una festa prima di cominciare, per poi di fatto tramutarsi immediatamente in un ritrovo di vecchi amici, le cui sole facce ti fanno stare meglio. Si chiude con Melvin solo sul palco con un’armonica e la promessa di rivedersi la sera dopo.

Ventiquattro ore più tardi, cambiano i dischi (White Trash, Two Heebs and a Bean, So Long and Thanks for All the Shoes e The Decline), ma non cambia il copione, con i losangelini che mettono in piedi un’altra festa per i fan. La democrazia delle magliette parla chiaro, non solo i gruppi Calipunk, ma anche Pantera e Limp Bizkit, i Brujeria e persino quel mattacchione di Burzum, a testimonianza della trasversalità della band e di come le canzoni di Fat Mike, El Hefe, Melvin e Smelly abbiano travalicato i confini di genere.

Se la scaletta della prima serata somigliava a una sorta di greatest hits, andando a pescare principalmente da quello che è il disco più conosciuto, quella della seconda è costellata di piccole grandi perle amatissime dai fan, dalla splendida Quart in Session alla farsesca Buggley Eyes, a cui seguono Johnny Appleseed e Falling in Love nell’encore. E per non farsi mancare nulla, c’è spazio anche per Radio, la cover dei Rancid e un pezzo per lo scomparso Tony Sly. Qualcuno accende anche un fumogeno sull’ultima, epica The Decline eseguita, questa volta sì, nella sua interezza.

Nel corso delle due serate Mike e soci hanno ringraziato spesso l’Italia, sottolineando molte volte come siano venuti a suonare nel nostro Paese «fin dal 1988!» e non mancando di omaggiare pubblicamente band come Indigesti, Negazione e Raw Power (presenti, quest’ultimi, in scaletta nella due giorni). Al termine dell’ultimo pezzo, Fat Mike è il primo ad abbandonare il palco, senza dire una parola. È El Hefe a congedare il pubblico italiano: «Bye bye, è stato divertente». Oh, se lo è stato.

Il pubblico non vuole andarsene, continua scandire il coro finale di The Decline finché non parte un lungo applauso ai beniamini di gioventù, per trattenerli un altro po’, per prolungare l’illusione che tutto questo tempo non sia passato realmente. Quando si accendono le luci rimane il sapore dolceamaro della fine di un viaggio. È stato bello farlo assieme, amici, ma è arrivato il momento di salutarsi. «Non pogavo così dagli anni ’90», dice qualcuno accanto a me.

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