Fontaines DC, il report del concerto all’Alcatraz di Milano | Rolling Stone Italia
Chitarre al potere

Al concerto dei Fontaines D.C. per capire se sono i migliori, come dice Elton John, o un gruppo per modaioli

Ieri sera gli irlandesi hanno dimostrato che non sono né l’una, né l’altra cosa. Il report del live in un affollatissimo Alcatraz di Milano

Al concerto dei Fontaines D.C. per capire se sono i migliori, come dice Elton John, o un gruppo per modaioli

Grian Chatten coi Fontaines D.C. all’Alcatraz di Milano

Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

I Fontaines D.C. mi stanno simpatici. Hanno l’aria di quel gruppo di pluriripetenti sfavati che sta sulle panchine a fumare il cui campo gravitazionale finisce inevitabilmente per attirare giovani secchioni coi pantaloni di velluto a coste a caccia di emozioni proibite, sembrano quei compagni casinisti con cui vorresti fare l’Interrail nei paesi del Nord Europa. Con la loro fiera ostentazione delle loro origini irlandesi (l’amata Dublino Città campeggia addirittura nel finale del nome), quell’accento che ti fa pensare subito a un film comedy/drama di Ken Loach e quell’aspetto da G.I. Joe vestiti da Kansai Yamamoto sai che se li incontri in un pub in chiusura ti divertirai. Ma la loro musica?

Ora bestemmierò, ma c’è qualcosa che non mi ha mai convinto. Saranno gli evidenti riferimenti alle band monumentali della mia giovinezza, ispirazioni musicali a tratti incoerenti che rimandano a un’epoca lontana in cui gli artisti che facevano alternative rock erano così influenti da potersi permettere assolute sfacciataggini mantenendo una loro credibilità artistica, quando le chitarre erano al potere. A insospettirmi è ovviamente anche la loro fulminea metamorfosi da prezioso diamante grezzo underground a salvatori del rock capaci di riempire arene in tutto il mondo, il tutto in quattro anni. Ma anche altri indicatori mi avevano fatto alzare il livello di guardia: testimoni d’eccezione dei loro live infuocati (il connazionale Cillian Murphy tra tutti), endorsement prestigiosi (Elton John che li definisce «la migliore band in circolazione al momento») e recensioni a dir poco messianiche del loro ultimo Romance (ne ho letta una in cui vengono tirati in ballo Massive Attack, Stone Roses, Pixies, Nirvana, Nick Cave, Slowdive, Depeche Mode, Arctic Monkeys, Broadcast, R.E.M., Cocteau Twins, Angelo Badalamenti, Oasis, Arcade Fire, Mamas and The Papas, La’s, Morrissey, Blur, Beach Boys e ne dimentico anche qualcuno, giuro). Non è un po’ troppo? Per come la vedo io, solo la friggitrice ad aria era stata in grado di di far esplodere subitaneamente una simile isteria collettiva, per poi, qualche Natale dopo, giacere lì dimenticata sul pianale della cucina accompagnata dal laconico commento «alla fine è solo un forno ventilato».

E i Fontaines D.C.? Sarebbero anche loro diventati un elettrodomestico che prometteva di cambiare la vita di molti oppure il simulacro vuoto sul pianale di un’era straordinariamente parca di rock band? Per rispondere a questo logorante interrogativo ma soprattutto per allontanarmi dalla mia famiglia per una manciata di ore faccio una cosa che ormai con due figli piccoli mi concedo un paio di volte l’anno: uscire dopo le 19. I Fontaines D.C. suonano all’Alcatraz, la data è sold out da mesi. Mi sento come uno di quei giapponesi che si sono nascosti nella macchia per 20 anni dopo la fine della guerra pensando che il conflitto fosse ancora in corso quando gli rivelano che è tutto finito nel ’45, non sono più abituato a vedere cosi tanta gente.

Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

Entro nel locale e ho il primo shock: il mio eremitismo aveva proiettato nella mia testa aspettative gonfiate e pirotecniche, mi aspettavo un pubblico simile alle comparse nel video di Ava Adore degli Smashing Pumpkins o a i vagoni di prima classe del treno di Snowpiercer, una specie di backstage di una sfilata di Hedi Slimane, chissà perché. Invece è pieno di vecchi. Beninteso: sono un vecchio pure io eh, ma pensavo di essere l’unico. Invece qui la stragrande maggioranza del pubblico è composta da concorrenti di Tale e Quale Show nei panni di Brian Eno, gente con la faccia da vecchio biker/roadie dei Grateful Dead. Vedo anche un paio di signore che potrebbero essere tranquillamente mia madre: filo di perle, orecchini/lampadario, maglione a collo alto. Non hanno accompagnato figlie giovani invaghite del cantante Grian Chatten, sono sole. Ci sono ovviamente anche dei giovani con i capelli tinti ma anche solo con i capelli. È evidente che il quintetto di Dublino ha una fanbase trasversale.

Pensavo di sentirmi fuori posto come sempre, invece mi sento sorprendentemente a mio agio. Incontro pure degli amici coi quali faccio due chiacchiere: hanno già visto la band al Primavera Sound due anni fa e mi dicono di quanto fossero stupiti per la risposta e l’affluenza del pubblico, la più alta per qualunque altro artista di quell’edizione. Vorrei concentrarmi su questo dato ma tutto quello a cui riesco a pensare è il fatto che la birra che uno degli amici sta sorseggiando l’ha pagata 10 euro al bar sulla destra. Dieci euro madonna santa! Mi sono perso la band di apertura ma questo è il triste destino di ogni opening act: è il tizio coi brufoli e gli occhiali che ti muore dietro per tutte le superiori, ma tu hai occhi solo per il fico in giubbotto di pelle dell’altra sezione. Lo siamo stati tutti.

Sono le 21.15 quando il quintetto di Dublino prende possesso del palco e inizia lo show. L’apertura è prevedibilmente quella del disco da cui prende il titolo, Romance, e i suoni pure. Colpisce subito il consumato professionismo dei cinque, l’assenza di sbavature, la potenza evocativa che la loro musica assume nella dimensione live. Sono sorpreso, ma non ancora convinto. È quando la band, incalzata dal basso galoppante di Conor Deegan, attacca Televised Mind che i miei pregiudizi iniziano lentamente a coprirsi di crepe. Le chitarre di Carlos O’Connell e Conor Curley si avvinghiano e avviluppano in configurazioni laocoontiche, annegate nel riverbero e sepolte dal tremolo mentre la batteria di Tom Coll macina impietosa.

La sorpresa più grande è ovviamente il frontman Grian Chatten, il cui timbro inconfondibile si staglia potente sui tappeti sonori tessuti dai suoi amici. Si muove come un giovane Ozzy Osbourne (non il migliore biglietto da visita per il frontman di una rock band, ne converrete con me), ma questo non fa che accrescerne il magnetismo un po’ sghembo mentre intona il già nutrito repertorio della band senza un’esitazione, una stonatura nella voce: Roman Holiday, che aveva già messo in luce due anni fa la direzione indieblockbusteriana intrapresa dai Fontaines, Death Kink, il loro personale omaggio al grunge dell’età del bronzo che è valso alla band il fastidiosissimo appellativo di eredi di Cobain, e soprattutto la struggente Slowdiver, nella quale coesistono la trasognante malinconia degli Slowdive e la forza post-shoegaze dei Deftones. Ecco, sto iniziando a fare anche io il citazionista palloso ma immagino sia inevitabile con una band le cui influenze sono così smaccatamente evidenti. Quando arriva Bug la gente canta tutto il testo all’unisono, facce trasognanti, occhi chiusi e teste che si lasciano andare.

Chatten risparmia il fiato per il repertorio: niente chiacchiere o siparietti col pubblico, niente «ciao Milanoooo!!!», «are you havin a goood TIIIIME?». No. Giusto un «Free Palestine» buttato lì, «we’re Fontaines D.C.» e, a alla fine, un secco «goodbye». Dal vivo la band è perfetta, non c’è che dire. Forse anche troppo: le loro cinematiche e ariose canzoni pop si meriterebbero qualche devianza noise sperimentale, qualche divagazione dreamy psichedelica per dare ancora più importanza alla dimensione live. Invece no, è tutto incredibilmente fedelissimo ai dischi. Comunque non ci lamentiamo, soprattutto pensando a come suonano dal vivo certe band (penso ai System of a Down).

Foto: Kimberley Ross per Rolling Stone Italia

Quando i cinque di Dublino iniziano a intonare Favourite (il pezzo loro che preferisco e che ho ascoltato ossessivamente per tutta l’estate, una hit senza tempo in cui echi del miglior Robert Smith sono sapientemente shakerati con i New Order meno elettronici) capisco che lo spettacolo sta per finire, i botti più grossi se li sono proverbialmente tenuti per la fine. Sono così allegro a questo punto che decido consapevolmente di farmi rapinare dal bar ordinando un gin tonic (che sorprendentemente costa solo due euro in più della birra) mentre Chatten prende la rincorsa per cantare il ritornello di Starbuster, primo fortunatissimo singolo estratto da Romance.

La musica è finita, gli amici se ne vanno e io salgo sulla 90/91 – l’unica vera Circle Line di Milano – diretto verso casa pensando che forse, tutto sommato, la friggitrice ad aria una sua utilità può pure avercela.

Set list:

Romance
Jackie Down the Line
Televised Mind
A Lucid Dream
Roman Holiday
Big Shot
Death Kink
Sundowner
Big
A Hero’s Death
Here’s the Thing
Bug
Horseness Is the Whatness
Nabokov
Boys in the Better Land
Favourite
In the Modern World
I Love You
Starbuster

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