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Baby Gang al Forum è stato il ‘Jailhouse Rock’ dei nostri giorni

Superato il carcere, i domiciliari e le varie Daspo, il rapper italo-marocchino si è conquistato il palco più prestigioso di Milano per sublimare la più riuscita storia di riscatto con la musica. Al suo fianco c'erano tutti: Geolier, Ghali, Sfera, Lazza, Fibra, Emma Marrone

Foto: Virginia Bettoja

Non c’è stato tempo di fare troppe prove, né altri concerti prima di arrivare nel “palazzetto” dei rapper per eccellenza, il Forum di Milano, Baby Gang era in carcere, ai domiciliari, sotto processo con qualche Daspo che lo teneva lontano dal suo pubblico. Ieri sera erano tutti lì ad aspettarlo, il popolo di Baby, dalla perif di via Padova passando per il Bosco Verticale fino ad Assago sul trenino della metro, molto simile a quello su cui Zaccaria dormiva da ragazzino quando scappava da casa o dalla comunità per minori. Lo stesso che scorre sul ledwall del palco mentre rappa con il collega italo albanese Il Ghost “Ero dentro un vagone con cinque stranieri / A te svegliava mamma, a me invece i carabinieri”.

Cavalcando la metafora, quel treno di Baby non si è più fermato, direzione “futuro” – dell’Italia, di quel che ne resta, di noi tutti – e nessuno lo può più fermare. A bordo una comunità spesso difficile da intercettare, stigmatizzata o criminalizzata dai media, ma vitalissima e sorridente a tifare per il fra’ che ce l’ha fatta e sale sul palco preceduto dalle immagini di un mondo che va a fuoco, dall’11 settembre passando per la Palestina fino al Duomo di Milano. Ecco. Se fosse un film, il concerto di Baby Gang sarebbe uno di quei film carcerari che iniziano con l’inquadratura del portone. Una macchina carica di fratelli ad aspettare, motore acceso, musica dall’autoradio. “E sento Tupac nella cella frate, a fianco”, “Tutte le finestre cantavano in coro / quando partiva Gianni Celeste nella cella di Soro”. Sotto la protezione di Gianni Celeste, e del suo gabbiano, nume tutelare della musica di cui non comprendiamo la forza, il potere incantatorio.

Foto: Virginia Bettoja

Foto: Virginia Bettoja

Quel portone è una soglia. Magnetica. È la paura, la seduzione, la differenza tra noi e gli altri, i rispettabili e no. La rappresentazione visibile di imprevisti e possibilità di un ragazzetto di seconda generazione. In uno dei momenti meglio riusciti del piccolo musical sintetico dell’altra sera, mentre canta Cella 2 una gabbia scende a portare su Baby Gang, verso l’alto della scenografia e a nasconderlo per il primo e unico cambio d’abito – dal bianco della prima parte, al nero totale della seconda. Guardate adesso l’immagine più celebre di quel mito di fondazione che è Jailhouse Rock con Elvis Presley, il film del ‘54 che faceva esplodere i cinema, la scena di ballo in galera di fronte alla stessa scenografia di sbarre disegnate. Il film era una storia di riscatto con la musica, la morale era quella della necessità dell’amicizia dentro il mondo fuori.

Il paradosso è che, proprio come ai primordi del rock’n’roll, coi Teddy Boys che qui a Milano solcavano come ondate via Torino molestando i passanti e rubacchiando qualcosa quando potevano (è storia vera, non leggenda, la indagò affascinato un giovane Pasolini), e oggi coi maranza scomodi e eccessivi a partire dal nome, questa comunità è maggioranza. Sbanca ogni classifica di Spotify, Youtube e TikTok. È virale. E Baby Gang il virus. Si riproduce ogni due decenni. I ‘50 del rock n roll, i ‘70 della guerriglia di strada, i ’90 delle posse e del Leoncavallo eterno fantasma di questa città, Genova 2001. Baby Gang è il grido che sale dalle periferie. Già sentita? Il fascino e l’impotenza che guardavano la polizia scontrarsi coi giamaicani nella Londra anni ‘60 e oggi sono i maranza che sfilano mascherati a Corvetto per dire la verità più semplice e trasparente, quella che tutti sanno, le sbarre di una cella disegnate enormi sopra la città in fiamme.

Foto: Virginia Bettoja

Foto: Virginia Bettoja

Chi è cresciuto ascoltando i Clash, e Cheb Khaled, osannando le contaminazioni, non può che rimanere turbato di fronte alla dimensione sociale di questo rituale. Gli altri avranno tutto chiaro: i ragazzi, le ragazze, i bambini accompagnati dalle madri e i padri che osservano confusi. Tutti in cerca di identità e mitologie. Come sempre. Dentro la musica di Baby Gang c’è il montaggio di segmenti della trap americana e francese, i ritmi centroamericani e centroafricani, la posa reggaeton, la fissa per il pop napoletano – qui rappresentati da un enorme Geolier (probabilmente la più grande popstar del paese dai tempi di Pino Daniele e Troisi nel segmento con Miezz a vi cantata sullo sfondo di una Vela di Secondigliano, particolarmente suggestivo). Arriva poi Ghali a cantare Marijuana con una canna in mano in posa Bob Marley, il profeta di ogni resistenza. E poi Fabri Fibra e Emma Marrone con In Italia versione 2024 a chiudere il cerchio e il live, anello di congiunzione tra il rap nato dalle posse – si sente l’eco degli Assalti Frontali in lontananza – e la trap di oggi.

Quello che colpisce, ancora, non è la cosa in sé, ma il suo effetto collettivo. Se l’immigrazione è il terreno simbolico su cui si gioca la partita globale dei prossimi anni, Baby Gang parla la lingua del futuro, la politica quella del passato, della paura, della cella. Jailhouse rock.

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