Più che un palco, quella dove suonano i Muse è una nave spaziale. Nera carbonio, con due pedane laterali e una lunga passerella centrale, taglia in due il prato di San Siro con un’aria piuttosto sinistra. C’è tantissima gente – numeri vicini al sold out –, ma l’aria è piuttosto quieta, come se tutti fossero intimoriti da quel grosso monolite riciclato come palco di un concerto. Poco sopra, su un grosso megaschermo nero campeggia la scritta: we are caged in simulations. Qualche minuto dopo le 21, un gruppo di ballerini con un abito in stile Tron, armati di finte trombe metallizzate, attraversa la passerella in fila indiana. Sullo schermo cascate di numeri, scheletri digitali e un’altra scritta, rendering simulations. Più che un concerto, sembra l’inizio di un videogioco.
Nel frattempo, nascosto sotto il palco, Matt Bellamy canta Algorithm a un volume indicibile. Appare poco dopo, sollevato da una piattaforma nascosta al centro del “corpo di ballo”, indossando degli occhiali improponibili, una giacca glitterata e la solita chitarra futuristica. Finita l’introduzione, il riff di Pressure dà inizio allo show. In tutto i Muse suoneranno poco meno di trenta canzoni, un’enormità, alternando vecchi classici (Supermassive Black Hole, Hysteria, Time Is Running Out, Starlight), i brani dell’ultimo album (Pressure, Thought Contagion, Algorithm), assoli spaziali e un medley.
Tutto, dalla struttura del palco al look fantascientifico della band, dalle luci al neon ai visual vaporware, ha l’aria di una tamarrata fuori controllo: Bellamy e gli altri, però, non si prendono troppo sul serio, e in qualche modo la scenografia tiene in piedi il mix tra i riferimenti agli anni ’80 – di cui è stracolmo l’ultimo Simulation Theory – e il rock paranoico del passato. Le canzoni dell’ultimo album, in particolare, rinfrescano e alleggeriscono un repertorio che negli ultimi anni aveva preso una piega un po’ preoccupante.
I fan dei Muse saranno contenti di sapere che il concerto è pieno di momenti esaltanti: l’introduzione per chitarra noise, synth e neon di Supermassive Black Hole, la versione gospel (con tanto di pianoforte tirato su per l’occasione) di Dig Down, la coriandolata (nel caso dei Muse un bombardamento) alla fine di Mercy, l’attacco del riff di Time is Running Out, l’apparizione di un enorme mostro gonfiabile, una specie di Eddie degli Iron Maiden con il visore per la realtà virtuale.
Non mancano nemmeno le esagerazioni, trovate che possono funzionare solo a un concerto di una band come i Muse: la coreografia “tribale” di Thought Contagion, lo strumentale dub-rock, Bellamy che fa l’Amleto cantando con in mano un teschio metallizzato, i robot retrò sul palco durante Algorythm, ancora Bellamy che con grande enfasi “stacca la spina” a un cabinato, il medley metal.
Dal vivo, Bellamy e i suoi non si risparmiano nulla. Forse non avranno più granché da dire in studio d’incisione, ma quello che portano in tour è uno spettacolo impressionante e suonato con grande precisione. Un concerto di rock galattico tamarro e sopra le righe, con una scaletta giusta sia per i fan che per gli ultimi arrivati, e un light show incredibile. Peccato per i ballerini.