Antonio Barezzi è stato l’uomo che per primo ha sostenuto Giuseppe Verdi, economicamente e pure emotivamente. Specialmente quando, tra il 1839 3 il ’40, Verdi perse in poco tempo sia la moglie che i due figli, che erano anche rispettivamente la figlia e i nipoti di Barezzi. Senza Barezzi non ci sarebbe stato Verdi, niente Va, Pensiero, niente Rigoletto, niente di niente. Eppure tutti conoscono Verdi, ma quasi nessuno (parmigiani esclusi ma con riserve) conosce Barezzi.
In parte è giusto riconoscere maggiore valore e memoria a uno dei più grandi compositori del 19esimo secolo. Dall’altra parte però, come in tutte le cose, è doveroso distribuire equamente i vari meriti. Lo sappiamo tutti, Verdi aveva uno di quei talenti musicali che si manifestano se va bene ogni secolo. Barezzi invece era un imprenditore, ma soprattutto un appassionato di musica che ha visto in Verdi ciò che nessun altro aveva visto, e che per primo ha visto in Parma ciò che poi effettivamente è diventata. La città della musica—per quanto, certo, di musica classica—e che oltretutto si sta preparando a fare da capitale italiana della cultura nel 2020.
Tutto questo per dire che è significativo per un festival parmigiano lasciare per un attimo da parte un nome illustre ma ingombrante come quello di Verdi, e al suo posto dedicare una settimana all’anno a Barezzi, al lato meno visibile di Parma. E può sembrare strano a quelli di fuori, ma il Barezzi Festival quest’anno ha spento 12 candeline. È solo che è nato così, come evento jazz fra una ristretta cerchia e una figura carismatica come Giovanni Sparano (che fa il barista nella vita, personaggio incredibile), e poi ha pensato che fosse tempo di diventare grandi, che fosse il momento di far conoscere Barezzi al di fuori di Parma. Ma come? Tanto per cominciare, mettendo a disposizione di tutti spazi, penso subito allo splendore del Teatro Regio, altrimenti destinati all’uso esclusivo dell’aristocrazia locale.
Lì, quest’anno Barezzi invece ci ha fatto suonare Paolo Conte, vero highlight di giovedì insieme alla big band e una stima eterna e incondizionata da parte di ogni essere umano su questo pianeta; Anna Calvi mercoledì, talento spaventoso e live davvero chirurgicamente studiato nella sua naturalezza; Nils Frahm venerdì, con un setup forse un po’ troppo abbondante se rapportato a quello che poi sentono le orecchie. Tutto questo, inframezzato da piccoli live che si portano dietro conferme, tipo su quanto è brava Veyl a suonare, ma anche scoperte come quella dei Villagers, piccolo ensemble dublinese intriso di folk e vino bianco.
A completare il quadro di Barezzi 2018 arriva la serata conclusiva di sabato 24, affidata sì a nomi ormai blasonati nei festival italiani come Lorenzo Senni, Mount Kimbie e Nu Guinea, ma anche qui ambientata in un angolo sconosciuto di Parma, per quanto suggestivo. «Sai una cosa?» mi ha confidato un amico parmigiano fumando una sigaretta fuori dalla sala Ipogea dell’Auditorium Paganini. «Non sono mai stato qua e un po’ me ne pento.»