E niente: alla fine vince sempre Brian Eno. Anche quando non vuole. Anche quando non sarebbe il caso. Ci sarebbero infatti mille motivi per ritenere incredibilmente atipica, notevole e coraggiosa questa sessantasettesima edizione della Biennale Musica veneziana (il più antico festival dedicato alla musica contemporanea in Italia), ed è stato davvero bello potercisi immergere per più di una settimana di modo da avere un quadro d’assieme. Ma nulla: mediaticamente, l’accentratore di tutte le attenzioni è stato il signor Brian Eno.
È successo non tanto e non solo per l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera (meritato, peccato il discorso ufficiale della Biennale un po’ approssimativo a raccontarne le motivazioni), quanto perché il patto reciproco con la manifestazione veneziana – è stato lui stesso a svelare la “moneta di scambio”, parlando col pubblico dal palco durante i concerti al Teatro La Fenice – era proprio, riassumendo il senso: noi ti diamo il premio, tu però non solo vieni a Venezia a prenderlo e magari con qualche tua solita installazione o sveltina, ma produci uno spettacolo con orchestra. Ottima posizione, questa della Biennale Musica. Anche perché Eno di cose nella vita ne ha fatte millemila, ma condurre un’orchestra ancora no (farne parte sì: nel bislacco esperimento della Portshmouth Orchestra negli anni ’70, voluto da Gavin Bryars, in cui si faceva un po’ volutamente macelleria della musica classica; ma ecco, altri tempi, altri modi, altri contesti).
«Non avrei mai accettato se la Biennale non mi avesse suggerito di incontrare la Baltic Sea Philarmonic. Un colpo di fulmine che ha sbloccato tutto. Ho capito subito che loro erano assolutamente perfetti per provare a lanciarsi in questa impresa»: è sempre Eno a parlare e in effetti perfetta la BSP lo è stata, perché tolto l’eccessivo gigioneggiare scenico del direttore Kristjan Järvi per il resto è stata una grandissima prova di compattezza di un lato e versatilità dall’altro, amalgamate assieme. L’integrazione tra gli orchestrali e i collaboratori storici di Eno (Leo Abrahams e Peter Chilvers) così come gli interventi di Eno stesso – soprattutto, sorpresa!, da convincente e intenso cantante – hanno dato vita ad un risultato potente, tra il miglior David Bowie e un curioso ma riuscito ibrido rock-classica-ambient.
Chiaro, se ti esibisci alla Fenice in prima assoluta (biglietti polverizzati in pochissimo tempo per le uniche due repliche biennalesche in programma, ora lo show girerà un po’ per l’Europa e il globo) è un po’ un modo per vincere facile. La bellezza del più illustre teatro veneziano (e uno dei più famosi al mondo) è proverbiale, e inoltre è stata ulteriormente valorizzata da un lavoro molto, molto intelligente e appropriato sulle luci, trovando il giusto equilibro tra “evento di musica classica, orchestra e cose” ed “evento di un santone del rock e dell’ambient da venerare”.
Musicalmente, a concerti terminati c’è stato fra gli addetti ai lavori e i fan un grande, diffuso entusiasmo per questa ambiziosa produzione a nome Ships (che è peraltro in gran parte una implementazione live dell’album The Ship uscito nel 2016, con tanto di cover velvetundergroundiana esattamente come nel disco). Ad essere onesti, proprio l’essere alla Fenice ed esserlo nel contesto di un festival di musica classica contemporanea spingeva un po’ a sentire non solo la bellezza di quanto presentato da Eno ma, in minima parte, a sentirne anche i limiti. Sì. Limiti nella ricchezza delle partiture orchestrali, essenzialmente. Belle, eleganti; ma senza mai prendersi rischi o avere veri colpi di genio. E siamo convinti che Eno stesso ci darebbe ragione, visto che per l’ennesima volta, nel discorso di accettazione del Leone d’oro avvenuto il giorno successivo, ha rifiutato l’appellativo di «genio» specificando come lui sia semmai un umile ed appassionato compilatore e catalizzatore in primis di intelligenze collettive, un collettore di stimoli proveniente da varie scene artistiche (infatti lui ama autodefinirsi scenius più che genius). Questo, oltre a fare discorsi meravigliosi e azzeccatissimi sull’importanza di un sostegno pubblico alla cultura di base. Discorsi che abbiamo amato, e che reputiamo più importanti dello spaccare il capello in quattro sulla sua produzione artistica con tanto di incensamento più o meno esplicito.
Però ecco: Eno è stata l’epifania mediatica, l’unica grande vera epifania mediatica della Biennale Musica. Eno è stata l’epifania che ha portato alla Fenice giornalisti e musicisti da ogni parte d’Italia, Eno è stato quello che ha catalizzato gli articoli usciti in queste settimane sui giornali per quanto riguarda la Biennale, Eno insomma ha eclissato – contro la sua volontà – tutto il resto. O quasi. Ed è un peccato. Perché anche se i caporedattori delle pagine di cultura dei quotidiani e di altre testate sono pigri e si illuminano solo quando sentono «Briano Eno», questa Biennale aveva davvero moltissimi motivi d’interesse, come forse mai nell’ultimo paio di decenni: e sono stati premiati questi motivi da una serie serrata di sold out (anche se alla Biennale veneziana è facile farli, uno dei pochi posti al mondo dove sono rispettate le assurde capienze legali italiane: quanti concerti coi biglietti esauriti da mesi e gente disperata a cercarli, e poi dentro sala mezza vuota), e soprattutto da un pubblico molto trasversale, vivo, transgenerazionale, sverniciando via quella pigra tendenza ad accontentarsi della nicchia dei cultori della classica contemporanea. Recinto in cui la Biennale Musica volente o nolente è quasi sempre stata confinata. E spesso ha voluto confinarsi.
Brava davvero la direttrice artistica Lucia Ronchetti in questo terzo anno di mandato a prendere il coraggio a due mani, e a puntare tutto – chiedendo anche mezzi economici e appoggi più consistenti e impegnativi del solito alla Biennale, ottenendoli – su un festival che non solo era elettrico e contemporaneo nel filo conduttore (Micro-music, il titolo di quest’anno), ma lo è stato poi anche nei fatti. Ci vuole coraggio e visione per portare Robert Henke (il co-inventore del software Ableton Live, il caposaldo dell’elettronica da club contemporanea), Miller Puckette (inventore di Max/Msp, altro software fondamentale per la creatività digitale, in questo caso più sperimentale), Marcus Schmickler (bellissimo il suo Glockenbuch IV, commissionatogli proprio dalla Biennale), pezzi della saga Professor Bad Trip del compianto Fausto Romitelli (bravissimo l’ensemble Ictus e restituirne spirito, complessità e impeto, fondendo classica sperimentale e tremendismo rock). Tutte cose che potenzialmente fanno venire l’itterizia ai guardiani del faro della classica contemporanea più accigliata e colta (ed è successo: c’è già chi per Eno alla Fenice ha parlato di «scempio e sacrilegio inaccettabile», abbiamo sentito con le nostre orecchie), ma che invece ha dimostrato di poter stare bene eccome al fianco di partiture più preziose e riconosciute dall’accademia e del salotto nobile della classica del ventesimo secolo. Come e più di Eno.
Così come ha dimostrato di stare bene nel cartellone della sessantesettesima Biennale Musica addirittura un vero e proprio pezzo di club culture, sì, la discoteca!, la gente che balla!, manco fossimo al Sónar, costruita in parte dalla collaborazione voluta da Ronchetti con la cricca di Nero (che ha portato in dote anche un bel talk su rave e dintorni con Simon Reynolds, Kode9 e McKenzie Wark protagonisti): dai celebratissimi, immarcescibili e ostici Autechre, che hanno fatto un set per i loro canoni in realtà persino pop (folle e visionario, ok, ma molto quadrato e diremmo addirittura semplice ritmicamente), al già citato Kode9 (che ha suonato manco fosse in un club molto underground o in un centro sociale: BPM spinti e un sacco di drum’n’bass anni ’90 e strani misti tra latinismi trasfigurati, UK bass e footwork, tra ovazioni dei presenti), a Loraine James (molto, molto brava: eterea e angolare al tempo stesso), fino alla ciurma di Sonic Acts, un collettivo con base ad Amsterdam che si è preso una serata tutta per sé e ha trasformato il Teatro alle Tese all’Arsenale in una sorta di celebrazione del dolore e della nevrosi declinata a metà tra club culture e teatro, dando così una rappresentazione drammaturgica e policentrica del clubbing che – anche se già vista, per i più sgamati – è davvero una maniera molto interessante per uscire dal circo commercialone del dj-superstar-davanti-a-folle-da-festival-adoranti ora egemone, circo che francamente ha iniziato a rompere il cazzo se si è un minimo esigenti e se si sa che il clubbing è più di Peggy Gou e mani e smartphone in aria quando parte la hit.
Altra segnalazione, sempre nell’inedito filone clubbing-non-clubbing di questa Biennale Musica: il lavoro di Brigitta Muntendorf Orbit – A War Series. Impatto testuale forte sui drammi della guerra, purtroppo in questi giorni attuale come non mai, e un’elettronica a momenti danceflooriana a momenti sospesa da ascoltare da seduti e immersi in una straniante cortina nebbiosa e con la diffusione dell’audio circolare, non solo frontale.
Tanta roba, per un festival di classica contemporanea. No? Ma ecco: i festival di classica contemporanea potrebbero e dovrebbero essere proprio così, in realtà. Va benissimo custodire e tramandare la lezione delle avanguardie storiche (ovvero, quelle robe che ascolti su Radio 3 e pensi «ma che cazzo, è questo è solo rumore ed orchestre che suonano a caso», quando in realtà è musica con una storia, uno spessore, una ragione d’essere importante e tanti onori a chi ne porta avanti il valore), ma lo sforzo che ha fatto la Biennale Musica 2023 di dialogare con la contemporaneità a 360 gradi, facendolo con competenza, generosità e senza preclusioni, è davvero notevole e ha portato all’edizione più viva, interessante e, lo ripetiamo, popolarmente coinvolgente ed intergenerazionale degli ultimi vent’anni (l’ultimo grande sussulto fu con quella rara avis della direzione artistica dell’americano Uri Caine, nel 2003).
Non che nel frattempo nelle varie Biennali Musica dal 2003 ad oggi non ci siano stati nomi e spettacoli interessanti e/o iconoclasti per il mondo classico (abbiamo visto di tutto, dalla techno di Richie Hawtin al jazz di Paolo Fresu), o in generale edizioni complessivamente stimolanti e interessanti, però mai come stavolta era tutto inserito in un disegno complessivo, organico, ragionato che voleva comunicare cose ben precise. Insomma: non era un «chiamiamo gli Autechre e Kode9, così per due sere lo famo strano e diamo un contentino ai giovinastri e a questa musica che gli piace tanto»; non era un «diamogli ‘sto Eno che son contenti e si sdilinquiscono, poi torniamo a curare gli orticelli nostri»; no, era un racconto di come il digitale e in generale le musiche di largo consumo contemporanee così come certe nicchie intellettualoidi possano effettivamente avere un dialogo col mondo dell’accademia.
Un esempio perfetto in tal senso è stato Songs & Voices di Francesca Verunelli (commissionato appositamente dalla Biennale assieme ad un’altra decina di festival/istituzioni, tra cui l’IRCAM): concerto per sei voci, dieci strumenti ed elettronica davvero splendido, e che era in moltissimi passaggi come una riproposizione in chiave acustica ed orchestrale degli Autechre più lisergici e coraggiosi (tolti magari alcuni momenti evitabili, diciamolo, non più di 10 minuti comunque su un totale di 70, tipo una pessima sezione per solo voce e chitarra acustica: ma il brutto aiuta poi ad apprezzare meglio il bello, no?). Ecco: dovessimo riassumere le potenzialità inesplorate del rapporto tra musica classica contemporanea ed elettronica viva (quella cioè che sta sul mercato e attira le folle di ventenni/trentenni/quarantenni, non quella museale e accademica), questo sarebbe l’esempio perfetto della strada da seguire.
In realtà molto resta ancora da fare. Dopo questa Biennale, comunque riuscita, non possiamo tuttora avere un Walk This Way 2.0 in cui al posto di rockettari e rappusi che si scoprono amici e compatibili abbiamo la classica contemporanea da un lato e il pubblico da Sónar o Club To Club dall’altro che s’abbracciano. Esiste ancora una frattura fra questi due universi: la si vede ancora plasticamente. La si vede da come ci sia ancora bisogno di Eno per le epifanie mediatiche trasversali, e la si vede anche quando grandi incendiari e sperimentatori del post rock/noise e del digitale come Kali Malone e Stephen O’Malley (caodiuvati da Lucy Railton), investiti anche loro di una committenza specifica della Biennale per creare qualcosa di inedito e specifico, tirano invece fuori una faccenda davvero timida e un po’ sciapa: un concerto per organo e (impercettibili) abbellimenti che è stato da ricordare più per la bellezza della location – la Basilica di San Pietro di Castello è una sorta di best kept secret veneziano – che per la consistenza musicale. Pigrezza o eccesso di timore reverenziale? Chissà. Così come non ha lasciato il segno la serata con Dj/Rupture, Lamin Fofana e Jjjjjerome Ellis, per cui invece le aspettative erano altissime. Ci spiace solo, in questa lunghissima settimana, aver perso il suggello finale di questa edizione, il concerto speciale del santone John Zorn straordinariamente per organo, non per sax, fuoco e fiamme come suo solito.
Ad ogni modo, è stata una esperienza molto interessante, a tratti esaltante, al di là del fatto di avere Venezia come quinta che, fidatevi, per quanto possa essere banale dirlo è davvero un commovente valore aggiunto per ogni cosa. La Biennale Musica darà continuità a questo coraggio? Domanda che in molti si fanno, ed è ancora più pressante ora che è arrivato l’annuncio dello spoil system ai tempi di Meloni per cui alla Biennale tutta – non solo quella Musica insomma, ma tutte le altre sezioni a partire da Arte ed Architettura – adesso arriva Pietrangelo Buttafuoco, e nessuno sa cosa potrebbe succedere davvero (ma in tanti hanno molta, molta, molta paura). Siamo stati testimoni e in parte artefici di questo siparietto: «E adesso cosa succederà? Fanno fuori la Ronchetti e mettono Morgan a dirigere la Biennale Musica?», «Ma va’, vedrai che ci mettono Beatrice Venezi…», «Ah caspita, vero, figurati se non mettono lei», «Beh, potrebbero fare una diarchia tra lei e Morgan: a lei la classica, a Morgan tutto il resto, così ognuno spadroneggia nel suo campo», «Zitto! Che magari qualcuno di loro adesso ti sente… Non dargli delle idee! Siamo già messi male così».