Bruce Springsteen a Monza, la recensione del concerto | Rolling Stone Italia
Cronache del Disaster Tour

Bruce Springsteen a Monza, la fragilità forte del vecchio rocker

Il racconto del concerto all’Autodromo, quasi un esorcismo degli anni che passano fra momenti toccanti e pose rock che oggi più che mai sembrano commenti autoironici sul tempo che passa. Se è stato uno show da sogno, il deflusso è stato da incubo

Bruce Springsteen

Bruce Springsteen a Monza

Foto: Sergione Infuso/Corbis via Getty Images

Su Twitter è già stato ribattezzato con perfidia il Disaster Tour dopo le ormai arcinote polemiche per lo show tenuto a Ferrara a maggio nonostante l’alluvione e ora per il concerto finale all’Autodromo di Monza della leg europea, arrivato il giorno dopo il nubifragio che ha colpito Milano e la Brianza. In effetti i live italiani di Bruce Springsteen in questo 2023 non sono stati baciati dalla fortuna e hanno anzi rischiato di saltare in entrambe le circostanze. Ma alla fine a uscirne vincitore è come sempre lui, l’inossidabile 73enne rocker americano che sul palco non ha paura di mostrare le rughe e gli acciacchi (capitomboli on stage compresi) facendo della fragilità una forza, esorcizzando gli anni che passano con le sempiterne pose da macho rock, ma che oggi paiono impregnate di una autoironia sul tempo che scorre, mentre lui è ancora lì a percorrere le assi della passerella (con passo più lento e più controllato degli anni ruggenti) e a gigioneggiare con l’amico e socio di sempre, il pirata Little Steven. E se la discografia degli ultimi dieci anni del Jersey Devil sembra oscillare tra idee felici come l’album orchestrale/country Western Stars e scelte di retroguardia e prescindibili come il disco di cover soul Only the Strong Survive e il The River minore Letter to You, sul palco Springsteen resta sempre il Boss.

E lo si capisce alle 19:52 quando prende il suo posto davanti al microfono spalleggiato dalla E Street Band, allargata con sezione fiati, coristi e un percussionista, fa partire una tirata No Surrender, l’inno sul non arrendersi, quintessenza della poetica della strada springsteeniana, con il verso manifesto “Abbiamo imparato più da un disco di tre minuti che da tutto quello che abbiamo appreso a scuola”. Il suo pubblico è già conquistato e rassicurato. I travelling fans che lo seguono in molte date del tour stasera però mugugnano per le scalette fisse di questo 2023, rimpiangendo gli ultimi tour dove ogni sera c’erano soprese e brani a richiesta, suggeriti direttamente dalla platea con cartelli con i titoli delle canzoni desiderate, che Bruce e la E Street Band eseguivano come fossero un juke-box. Ma lo Springsteen 2023 segue un canovaccio dove c’è poco spazio per l’improvvisazione, ispirato forse dall’esperienza dello spettacolo teatrale portato a Broadway. Come ha detto a Rolling Stone il chitarrista Nils Lofgren, questo impianto permette alla band di suonare con maggior profondità i pezzi e in effetti mai come quest’anno ci è capitato di assaporare dalla platea i dettagli, dalle svisate dell’organo di Charlie Giordano ai ricami dello stesso Lofgren, passando per i sontuosi fraseggi pianistici di “Professor” Roy Bittan.

Il filo conduttore in realtà sembra essere il pensiero della morte, evocata esplicitamente da Bruce in uno dei pochi discorsi della serata per introdurre la dolente Last Man Standing, dedicata al batterista della sua prima band, i Castiles, George Theiss, scomparso recentemente, lasciando Bruce come l’unico ex membro vivente del gruppo. Ma il Boss sembra quasi voler esorcizzare la morte con un concerto dove la fanno da padrone i brani più festaioli più che la rabbia urbana, che fa comunque capolino nelle intense Backstreets e Prove It All Night. E allora, dopo lo slot iniziale, da cui ahimè scompare anche Darkness on the Edge of Town, spazio a Out in the Street, alla sezione soul con la cover di Nightshift e il meraviglioso ripescaggio tra rhythm and blues e jazz di Kitty’s Back, che diventa una jam in cui tutti gli E Streeters possono sfoggiare la loro bravura mentre il gospel pop da house party di Mary’s Place si inserisce perfettamente nel mood e anche la drammatica Johnny 99, tratta da Nebraska, si trasforma da murder ballad acustica a spumeggiante honky tonk.

Una non scontata e meravigliosa The River porta al calare delle sera, che è il momento dei classici: Because the Night, con assolo da derviscio di Lofgren, Badlands, Born to Run con il pratone illuminato a giorno e la facce felici dei fan restituite dagli schermi. Glory Days dà modo a Bruce e Steve di inscenare il siparietto da vecchi marpioni dello spettacolo sul pubblico che non vuole andare a casa, Dancing in the Dark è un coro collettivo, Bobby Jean una cavalcata commovente sull’amicizia, altro caposaldo dell’epica del Boss e della sua gang di musicisti e fratelli.

Twist and Shout fa ballare i 70 mila prima che Bruce saluti il pubblico italiano ed europeo nell’ultimo appuntamento del tour prima di tornare negli Stati Uniti con la delicata I’ll See You in My Dreams, promettendo di tornare presto nel vecchio continente. I fan sperano in una chicca finale, magari una Thunder Road acustica, ma il vecchio guerriero del rock’n’roll ha dato tutto. Loro invece dovranno attendere almeno un’ora in fila per riuscire a lasciare l’area del concerto, per poi incamminarsi in migliaia, per fortuna educatamente e con senso di responsabilità, in un sottopassaggio angusto. Poi altri chilometri a piedi nel buio del parco, per un deflusso caotico che un pubblico così non meritava. Parafrasando Bruce, tramps like us baby we were born to walk

Scaletta:

No Surrender
Ghosts
Prove It All Night
Letter to You
The Promised Land
Out in the Street
Darlington County
Kitty’s Back
Nightshift
Mary’s Place
Johnny 99
The River
Last Man Standing
Backstreets
Because the Night
She’s the One
Wrecking Ball
The Rising
Badlands
Born to Run
Bobby Jean
Glory Days
Dancing in the Dark
Tenth Avenue Freeze-Out
Twist and Shout
I’ll See You in My Dreams

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