In Italia non esistono i grandi festival internazionali. Lo si ripete da anni, e con una certa insistenza, da quando i social (che ci hanno permesso di conoscere meglio le altre realtà internazionali) e l’abbassamento dei costi di trasporto per l’Europa sono diventate parti integranti della nostra quotidianità. Perché, in fondo, tutti i paesi europei hanno i loro super-eventi internazionali: dalla Spagna alla Francia, dall’Inghilterra ai Paesi nordici, dalla Polonia alla Croazia. L’Italia è però rimasta fuori da questa equazione. Le motivazioni, certo molteplici e culturali, si possono però facilmente ricondurre ad alcuni problemi sistemici (avete detto burocrazia?) che storicamente hanno rallentato, se non affossato, gran parte dei tentativi di emancipazione culturale del nostro Paese. Certo, le eccezioni ci sono, e come ogni anno siamo qui a parlarvi di una di queste, forse la più completa e strutturata del panorama italiana, il C2C Festival di Torino.
Il C2C Festival è un’istituzione della geografia europea dei festival. Lo è nell’attesa che si crea dal suo annuncio al primo dei quattro giorni di manifestazioni tra Lingotto e OGR, lo è nel modo di comunicarsi all’esterno (dall’estetica all’auto-narrazione) e lo è nella dannata FOMO che si viene a creare se – per qualche ragione – ci si ritrova costretti a vendere i biglietti last minute e vedere ‘gli amici che si divertono’ sui social. Queste sono infatti tre caratteristiche importanti a cui fare riferimento per comprendere la portata di un evento. E poi, naturalmente, è importante quella lacrimuccia quando termina l’ultimo brano, le luci si accendono e si viene accompagnati fuori dal festival, riemergendo così da questa bolla (culturale, danzereccia, relazionale) che Torino ospita il primo weekend di novembre da oltre due decenni, in concomitanza con la Art Week che ospita in città grandi eventi legati giustappunto al mondo dell’arte.
Un’istituzione partita dal basso (e letteralmente da un movimento di pubblico from club to club) e che ora si trova ad essere un punto di riferimento per gli amanti dell’elettronica e del pop più ricercato (che qui chiamano con vanto Avant Pop). Quindi un pubblico non solo di clubber (è difficile comunque trovare un clubber europeo che non abbia idea del C2C, provate a domandarlo ai vostri amici all’estero per averne conferma), ma un variegato connettore di persone che condividono – seppur magari in maniera differente – una certa sensibilità sonora ed estetica. Non è quindi un caso, ma una conferma, il fatto che il pubblico possa facilmente destreggiarsi tra il primo live italiano di Caroline Polachek solista (tecnicamente perfetta, magnetica, ma forse penalizzata da una scaletta a cui mancano 2-3 brani più up per tenere il ruolo di headliner in un contesto festivaliero) e il bignami di elettronica made in UK proposto dagli Overmono (che passano spudorati dal primo The Streets al più recente For Those I Love) tra la violentissima trance filo-calcistica di Evian Christ (parte con l’inno della Champions League e si presenta sul palco con una maglietta della Juventus) e l’ambient degli Space Afrika, giusto per citare alcuni dei punti focali della prima serata al Lingotto, o tra l’indie rock ampio di King Krule e il reggaeton decostruito dei Sangre Nueva (il trio di dj e producer composto da Dj Python, Florentino e Kelman Duran) e la black music di Flying Lotus o l’house di Moodymann. Potrebbe sembrare la normalità a chi è abituato a viaggiare tra i festival europei, ma per il nostro Paese è un caso quasi unico, o almeno sicuramente unico nella sua progettualità e longevità.
Perché il punto è proprio questo: non possiamo e non dobbiamo dare il C2C Festival per scontato proprio perché è la nostra porta sul contemporaneo, sul presente/futuro e sicuramente sul Mondo (per citare il tema di questa edizione). Nonostante vent’anni sulle spalle e le ultimi edizioni post-covid che potrebbero – all’occhio dei meno attenti – sembrare procedere con il pilota automatico, il C2C rimane prima di tutto (ed è forse questa la chiave per quella porta sul Mondo) un festival ambizioso. Nella serata di sabato al Lingotto – ovvero il momento centrale della manifestazione – per un main stage che propone King Krule, Flying Lotus e Moodymann, c’è un second stage completamente affidato alla Pan Records (etichetta visionaria tra Atene e Berlino) che – giusto per contestualizzare ai non-clubber o ai clubber-lamentosi – la settimana prima ha festeggiato i suoi 15 anni al luogo di culto della scelta, il Berghain di Berlino. Pensare quindi che sul palco di C2C ci siano, di fila, nomi molto conosciuti nell’underground ma non riconosciuti dai più come Sangre Nueva, Bambii, Crystalmess, Bill Kouligas e Tzusing (la maggior parte dei quali erano in scaletta con Arca e Skrillex proprio al Berghain meno di una settimana fa) è una vittoria culturale per il nostro Paese. Non solo per Torino, o per il clubbing o l’ambiente della musica elettronica, ma per tutti coloro che vedono la musica non solo come un luogo di divertimento ma anche di conoscenza. Quando si parla di fare cultura, si passa proprio da qui.
Negli ultimi anni C2C ha inoltre lavorato su alcuni dei suoi problemi più evidenti come l’allestimento. Ora le due room principali hanno una propria e chiara identità: il main stage con i multi schermi immersivi (non solo a lato palco, ma anche lungo la sala e sul soffitto) per gli headliner e il second stage firmato Stone Island con un palco circolare con le sue colonne di casse (che richiamano alla rave culture) che nascondono i dj riportando la musica al centro della scena. Da quest’anno inoltre quella che fu la tanto amata Red Room – ora rinominata Plenitude Room – offre una possibilità di descanso immaginifico con l’installazione composta da laser verdi firmata Anonima/Luci (avrete sicuramente visto delle story su Instagram), musicata da producer come Money Lang e alimentata ad energia verde, che diventa così il perfetto luogo di sosta sognante nelle lunghe serate al Lingotto (parliamo qui di 9-10 ore di musica a sera). Il punto ora sarà lavorare per trovare una quadra migliore per i flussi alle code di bar e guardaroba (al Lingotto) e un sistema di gestione dei resi dei bicchieri e dell’intricato sistema braccialetti più semplice e trasparente per i le migliaia di persone presenti al festival. O magari, perché no, stravolgere tutto e reinventare l’intero format.
Per chi il C2C lo è vissuto per più di metà delle sue edizioni è inoltre molto interessare vedere come il pubblico si divida oramai in due e chiare categorie. Da un lato la gente del C2C, ovvero coloro che da anni, in un appuntamento fisso, si ritrovano tra Lingotto e OGR in una sorta di iper-famiglia festivaliera (il cui mantra nelle settimane precedenti sarà la domanda “Ma tu ci sei quest’anno al C2C?”). Dall’altro i più giovani e i neofiti che entrano in questo universo con entusiasmo e senza davvero saper cosa aspettarsi dalla gran parte del cartellone. È qui che ambizione e l’obiettivo di fare cultura si riuniscono, quando migliaia di persone entrano in un evento e ne escono con la voglia di conoscere nuovi generi, nuovi suoni, nuovi artisti ispirati da quanto visto, vissuto, ballato. Il ballo che, oggi come ventuno anni fa, resta il punto d’incontro del C2C. Poi improvvisamente tutto finisce, si torna casa, e guardando sullo smartphone ecco il primo messaggio: “Ma tu ci sei allora al C2C 2024?”.