Malaga sta vivendo un boom turistico e abitativo. Non è un caso che la capitale culturale e finanziaria della Costa del Sol, meta europea tra le più ambite nel 2023, stia generando effetti su tutta la zona costiera. È in questo contesto che è nato l’anno scorso un festival di proporzioni notevoli incentrato su grossi nomi indie e musicisti locali, vicino al mare, nel piccolo comune di soli 4000 abitanti La Cala De Mijas, situato nel cuore della Costa fra il capoluogo di provincia e Marbella.
Non capita tutti i giorni di bagnarsi nel mare di Alborán, poco distanti dalle Colonne d’Ercole (lo Stretto di Gibilterra dista a soli 100 chilometri da La Cala De Mijas) e, dal tardo pomeriggio, poter vedere in sequenza nell’arco di tre giorni (quest’anno, per la seconda edizione della manifestazione, tenutasi dal 31 agosto al 2 settembre) Siouxsie, Arcade Fire, Idles, Foals, Strokes, M83, Underworld, Florence and the Machine, Belle and Sebastian, Metronomy, solo per citare alcuni dei nomi con i font più grandi in cartellone fra le settanta performance della seconda edizione del Festival Cala Mijas.
«Siamo poco distanti da quel punto dell’Oceano dove finisce la Terra», declama Siouxsie, classe ’57 – che con i suoi musicisti ha aperto il festival – prima di tuffarsi nella sua Lands End. Sono passati circa 30 minuti dall’inizio del suo show. Più che un concerto, un rapimento. Un incanto surreale che concentra anche gli sguardi degli Arcade Fire, composti sotto il tendone sul lato destro del Sunrise, il palco principale che nel giro di un’oretta sarà di loro competenza.
Intanto la diva del goth, con uno scialle nero su una veste azzurro ciano, volteggia con una leggiadria che fa totalmente dimenticare l’inesorabilità del tempo e dei suoi effetti deleteri sulle corde vocali. Con Israel apre le danze, con Dear Prudence, Spellbound e Hong Kong Garden ci ipnotizza definitivamente tutti. È struggente vederla salutarci senza una The Passenger, ma soprattutto senza Christine, per chi scrive una delle canzone perfette, di quelle da portarsi sulla famosa isola deserta.
Sono passate da poco le 10 di sera ed è già uno dei momenti più attesi della tre giorni andalusa. Sul Sunrise scendono dai gradini incastonati nel terreno collinare sovrastante il frontman Win Butler, sua moglie Régine (entrambi con vestiti rosso-neri, tonalità flamenco) e l’impianto storico del collettivo canadese Richard Reed Parry, Tim Kingsbury e Jeremy Gara, Sarah Neufeld e l’ormai consolidata presenza della triade Dan Boeckner (Wolf Parade), Eric Heigle e l’haitiano Paul Beaubrun.
Nel delirio generale Régine si mette al centro della scena per dare il via allo show spettacolare degli Arcade con il suo rituale propiziatorio. Punta il suo finto bastone magico sulle tavole del palco e lo batte tre volte, decisa. Age of Anxiety II (Rabbit Hole) con Win bello carico apre la set list mentre le bocche di plastica che costeggiano tutto il corridoio di fronte alla scena, d’improvviso, esplodono coriandoli su tutte le prime file del pubblico. No Cars Go sostituisce Rococo – depennata all’ultimo minuto dalla scaletta – generando un po’ di confusione nella coppia in scena e nella vita (cit. Marzullo). Régine, per quasi un minuto, non sa più che strumento le tocca suonare. Win la schernisce proclamando «guardate che lei sa suonare di tutto, anche il triangolo».
Il cantante di Houston ricorda che il suo primo viaggio in Europa, a 18 anni, avvenne proprio qua, in Costa del Sol. «Viviamo una situazione politica di merda, ragazzi. In America, in Spagna, ovunque. Dobbiamo fare fronte, stare uniti», cambia discorso Butler. L’audio è un po’ claudicante e finisce con lo spappolarsi mentre Wake Up, dopo Everything Now, s’incarica di siglare l’esibizione. I brani tratti dall’inarrivabile esordio Funeral eguagliano in numero quelli dell’ultimo disco WE, il cui tour si appresta a finire a Città del Messico il 17 novembre dopo le molte polemiche per i presunti abusi sessuali di Win Butler su alcune fan. Il concerto di giovedì sera, penultimo del tour, forse ha espresso proprio questo: un forte desiderio di voltare pagina con una rabbia e un dolore ancora non codificato.
C’è tempo per scappare a vedere gli Idles sul Victoria, il secondo palco per grandezza. Con il loro collaudato concerto furente di gioia (Joy as an Act of Resistance, titola il loro secondo album) il gruppo di Bristol s’impegna a “motivare” il pubblico del Cala Mijas forse un po’ troppo vacanziero per il loro sound. Ma una cosa è chiara: Joe Talbot dalle mille vite è giunto da noi dal Pianeta delle Scimmie per ricordarci che se non vogliamo l’estinzione morale e l’avanzata delle destre dobbiamo usare il cervello («leggere o diventare ricchi è la cosa che più spaventa i conservatori»), con canzoni iconoclaste incazzatissime di vita. I governanti inutili, specie quelli non eletti possono andare a farsi fottere («Fuck the King! Fuck The King!», dopo la morte della Regina Elisabetta, è il nuovo mantra che tutti i fan della band di Brutalism inneggiano durante I’m Scum). Alla fine del festival è impossibile non notare che la t-shirt più acquistata dai banchi del merchandising è la loro. Precisamente quella con la foto di Lady D che recita implacabile “The Queen is Dead”.
Chiudono la prima giornata con maestria i Foals che dal vivo, si sa, ci sanno fare come pochi. Yannis Philippakis, da Kárpathos, conosce i diktat del turismo. Durante la manifestazione è l’unico ad aver capito l’antifona, lo scopo promozionale che sta alla base del festival andaluso. Ovvero mettere in modo più evidente sulla mappa La Cala De Mijas e certo non in un match senza motivo con Malaga e Marbella, semmai rivaleggiare con maggior dote località come Torremolinas e Nerja Estepona. Il cantante, consapevole del valore della toponomastica (e ne sono consapevoli anche gli organizzatori che hanno intitolato il festival in modo inequivocabile), è infatti l’unico degli artisti che durante la manifestazione, invece che un generico «Malaga», ripete più volte a gran voce e con saputa convinzione il nome della cittadina balneare che ospita l’evento, quasi a volerlo imprimere nella memoria del pubblico: «Cala Mijas! Cala Mijas! Cala Mijas!».
La sera di venerdì primo settembre sono gli Storkes a catalizzare l’attenzione. Immensi nella loro capacità di non mutare, a rimanere incapsulati nel tempo, nonostante lavori discografici sempre diversi. Le note dei Righeira con la loro versione spagnola di Vamos a la playa danno italianamente il calcio d’inizio sull’ingresso della band newyorkese. What Ever Happened? è la prima canzone di una set list che sarà chiusa dopo un’ora e mezza da Is This It. Con la sua magnetica finta-pigrizia Julian Casablancas (che mi ricorda sempre di più un personaggio di Stranger Things) è di gran lunga il cantante più sexy del pianeta. Almeno a giudicare dalle reazioni delle presenti.
Al concerto degli M83, la gente sogna, come da programma. Anthony Gonzalez si fa rubare volentieri la scena dalla presenza consolidata della texana Kaela Sinclair che, obiettivamente, ha un talento e un carisma scenografico eccezionale. Spiace che a un certo punto, nei brani senza linee di basso, il brusio costante di un parte degli spettatori si faccia sempre più sentire destando di malavoglia quel nocciolo duro che va ai concerti per ascoltare i concerti e, in questo caso, vuole cullarsi sulle note dream pop dei francesi. Gli Underworld con la loro vasta – enorme – esperienza chiudono la seconda serata. Rick Smith y Karl Hyde, fanno miracoli. Prima di Born Slippy, di fianco a me, giuro di aver visto il sosia di Spud.
L’ultimo giorno, il 2 settembre, verso pranzo, arriva il tweet di Pedro Sánchez sulla Spagna come «primer destino turístico mundial de festivales de música» e foto in cui scambia due parole con i Lori Meyers (band molto famosa qui), i Cariño e gli Strokes. «Nuestro presidente es muy Indie», commenta Carmen, OSS e fotografa amatoriale di Jaén.
I Belle and Sebastian con un mini-concerto di nove canzoni hanno chiuso idealmente una manifestazione che rimarrà nella memoria di chi ha partecipato. Peccato che è durato poco ma quel poco, per me, è stato il miglior momento del festival. So In the Moment, guarda caso, è l’unico estratto dall’ultimo album Late Developers, poi spazio per grandi brani dal passato come Fox in the Snow, Sleep the Clock Around o Chickfactor. L’impianto di The Boy with the Arab Strap con l’artista di Glasgow (poco prima spericolato sulle transenne durante una elettrizzante Your Cover’s Blown) con decine di persone che dal pubblico salgono sul palco, è certamente stato il clou. Stuart Murdoch è in ottima forma, dopo aver saltato il tuo europeo ed essersi ricreato durante il tour in Gran Bretagna. A proposito della Brexit, il cantante ha detto una frase del tipo: «Ho capito che non c’è niente da capire: sono semplicemente fuori di testa». Per poi chiosare, letteralmente: «Eddai, siamo europei!». Stuart for president. Anche se ha indossato la maglietta del Malaga ricordando sadicamente ai presenti la retrocessione in serie C.
Ma Cala Mijjas 2023 non è solo stata una questione di line-up e di location. Ho visto un pubblico vario per genere, età, provenienza (anche se ovviamente la popolazione andalusa primeggiava). Soprattutto pacifico, anche nelle punte di locura (salvo le solite eccezioni che confermano la regola), festoso, zero stressato in assenza di veri e propri clash fra band e artisti negli incastri giornalieri. Una parata di t-shirt musicali che indicavano ogni tipo di ascolto (tra cui la famigerata “Brigade Rosse” con la stella a cinque punte e il mitra dei terroristi tedeschi della RAF indossata a suo tempo da Joe Strummer), un sacco di ragazze prevalentemente danzanti, con ventagli coloratissimi, di uso comune da queste parti. In una locuzione abusata ma in questo caso veritiera: a misura d’uomo. Un’organizzazione ottimale dove chi sta dietro le quinte fa sistema, dove la parola cashless può essere di senso compiuto con i braccialetti con codici QR ricaricabili. Ciò ha significato code irrilevanti nei diversi punti di ristoro. Stesso discorso per le fila nelle aree wc, di lusso se la si paragona a quella di altre manifestazioni molto più grandi. La gestione dell’audio in generale è stata di discreto livello ma decisamente migliorabile.
Molto importante da segnalare lo stand per denunciare eventuali violenze di genere, curato dall’associazione malacitana ACP che regalava dei copribicchieri simili a condom bucati per inserire la cannuccia e bere tranquillamente senza il pericolo di venir drogati all’insaputa. Agli organizzatori, i veterani di Last Tour di Bilbao, che oggi controllano ben nove festival, compreso lo storico BBK della capitale basca, si può solo dire di dire: avanti così.
Il festival, con i suoi quattro palchi (Sunset, Sunrise, Victoria, La Caleta a cui si aggiungono i dj set e i concertini nella zona della spiaggia e della piazza (dove c’è la fortificazione il Torreón) è situato in uno spazio recintato che è stato nominato Sonora, a 18 minuti dalla spiaggia e fra varie scuole e campi da golf. L’impostazione è spartana ma essenziale, sufficientemente funzionale. Può ricordare un set da Far West, per via degli stand che somigliano vagamente a quinte di scena, la polvere che ogni tanto si alza e le alture dell’Andalusia sullo sfondo, che fanno molto Sergio Leone.
L’anno scorso, sempre durante più o meno lo stesso periodo, simbolicamente “utilizzato” per rappresentare l’estate senza fine (che in questi luoghi è a tutti gli effetti una realtà perché in pratica soleggia per quasi tutto l’anno) è stato il primo passo. I Beach Boys e la California tutta, che della Endless Summer hanno fatto un marchio di fabbrica, hanno già fatto causa al sole ispanico per violazione di diritto d’autore. Ma l’edizione 2022, partita subito col botto con artisti come Kraftwerk, Arctic Monkeys, Chemical Brothers, Liam Gallagher, Hot Chip, James Blake e Nick Cave & The Bad Seeds, aveva creato non poche complicazioni per via dei flussi di persone (107 mila spettatori non sono poche per gli spazi di un comune di qualche migliaio di abitanti). Come mi ha raccontato Alba, una giovane agente della polizia locale, le cose erano andate un po’ fuori controllo mentre quest’anno e si presume anche per i prossimi tre anni di testing del progetto, «si lavora e si lavorerà in modo diverso e si cercherà di migliorare anche grazie ai feedback delle forze dell’ordine».
Chiudo con una menzione d’onore. La performance degli italianissimi Nu Genea ha fatto colpo su tanti dei presenti. Con il loro Bar Mediterraneo afrobeat che per un momento ha riportato in scena gli influssi di quel meraviglioso coacervo di idee che era la fusion di Napoli degli anni ’70 e ’80 hanno fatto ballare e divertire tutti quelli che hanno assistito. Il passaparola è il miglior marketing del mondo.