Il momento più atteso (e anche temuto, ammettiamolo) arriva dopo due ore di musica. Elvis Costello e Carmen Consoli, con i rispettivi musicisti – il pianista Steve Nieve, il chitarrista Massimo Roccaforte, il violinista Adriano Murania – condividono il palco per mezz’ora. A Milano, ieri sera, come a Roma e a Palermo nei giorni scorsi. A scambiarsi canzoni, strofe, lingue e melodie, come sottolinea Elvis, ammiratore di lunga data della cantautrice siciliana ed entusiasta ideatore di questo progetto che i due avrebbero voluto concretizzare già nel 2012, costretti allora a rinunciarvi per la gravidanza di lei.
Da come si guardano sul palco, dalle parole di stima e di affetto che pronunciano si capisce che nutrono una profonda ammirazione reciproca, eppure l’effetto è davvero bizzarro e straniante. Carmen, volenterosa e concentrata, cerca di addomesticare quello strano Frankenstein musicale che si aggira nel cortile del Castello Sforzesco sotto una bella luna quasi piena. Elvis è erratico e imprevedibile, a tratti sconsiderato, e ti fa trattenere il fiato come un equilibrista che inciampa continuamente sul filo. Lei, col suo lungo abito verde acqua d’altri tempi, fa la figura della sorellina giudiziosa, disciplinata e in soggezione; lui, con la sua giacca, gli occhiali e il borsalino in testa che si toglie spesso in omaggio a un pubblico caloroso e ben predisposto, quella del fratello maggiore scapestrato che tante ne ha fatte e ne ha viste e a cui tutto si perdona.
Le due ore precedenti se le erano spartite equamente, ognuno per la sua strada su binari paralleli. Consoli inizialmente da sola con le sue chitarre acustiche, tra il presente di Volevo fare la rockstar e il passato di Amore di plastica, In bianco e nero, Parole di burro e Fiori d’arancio, brava a variare toni e ritmi davanti a una platea affettuosa in cui non mancano i concittadini pronti a scaldarsi quando, nei testi e nelle presentazioni, nomina Catania e la Sicilia. La chitarra elettrica e il mandolino di Roccaforte, al suo fianco dagli esordi a metà anni ’90, e il violino di Murania aggiungono colori delicati ed eleganti a Una domenica al mare e a L’ultimo bacio prima che in Geisha il sussurro si trasformi in grida e Consoli tiri fuori dalle viscere la sua anima rock in uno dei momenti migliori della serata. Buttana di to ma’ rende quasi psichedelico il folk della conterranea Rosa Balistreri, omaggiata anche con Canta e cunta, e in siciliano la cantautrice chiude anche il suo set con ‘A finestra dopo avere denunciato ad alta voce gli abusi sessuali sui minori con il quadretto aspro e beffardo di Mio zio.
Quando, introdotti da un vecchio standard americano e un drappo rosso a fare da sfondo, sul palco arrivano Costello e Nieve lo stacco è netto, e ci si comincia a chiedere come i due volti dello show possano fondersi in maniera coerente. Elvis, su di giri, incita subito la folla all’applauso, al canto corale e alla partecipazione, imbraccia una chitarra elettrica azzurra e siede davanti a un microfono vintage mentre parte la base ritmica preregistrata di When I Was Cruel (con la voce campionata di Mina nell’originale, ci tiene a ricordare); Nieve, alla sua destra, comincia a dispensare magie da gran prestigiatore del pianoforte prima di alzarsi per suonare una clavietta. Ricordando il concerto di Palermo in cui, racconta, si è fatto prendere la mano perdendosi nel tempo e nello spazio, Costello promette un set più regolare anche se solo i fan di lunga data ricorderanno Talking in the Dark, un vecchio singolo promozionale di fine anni ’70 che ogni tanto riaffiora nelle sue scalette.
Dello stesso periodo è Accidents Will Happen, che diventa quasi una candida confessione: l’incidente è davvero dietro l’angolo, la progressiva waitsizzazione o dylanizzazione di Costello è compiuta, rauco e spesso out of tune Elvis fa a pezzi le sue canzoni più famose, maciullando Alison e inerpicandosi su un pentagramma surrealista che sembra disegnato da Picasso. Per fortuna può appoggiarsi alle spalle robuste di Nieve, capace di pestare sui tasti come Jerry Lee Lewis e subito dopo di disegnare classicheggianti aperture melodiche di straordinaria bellezza. Quando il songwriter inglese presenta un pezzo nuovo e inedito, il rock and roll Like Licorice on Your Tongue, il paradosso appare ancora più evidente: le sue vecchie canzoni sembrano cose mai ascoltate prima, quelle nuove ricordano i classici con cui abbiamo imparato ad amarlo.
È la sera delle sorprese, lo sapevamo: ma chi si sarebbe aspettato di ascoltare Dio, come ti amo, la canzone con cui Domenico Modugno e Gigliola Cinquetti vinsero il festival di Sanremo del 1966, in medley con il suo standard da jazz club, Almost Blue? L’interpretazione è atonale, e più che mai Elvis – forse con un pizzico di divertita perversione – sembra barcollare sull’orlo di un baratro. Si riprende subito con Watching the Detectives, che alle destrutturazioni e alle sue spericolate improvvisazioni vocali si presta da sempre, il basso campionato che entra nello sterno, i loop vocali e gli echi, la chitarra effettata come quella di Link Wray, il dub e le atmosfere noir; mentre quando affronta I Still Have That Other Girl ricordando la sua collaborazione con Burt Bacharach dal fedora estrae insospettabilmente la migliore performance vocale della serata, consapevole della lezione del maestro che, ricorda, gli insegnò a rendere meno sghembe e più lineari le sue canzoni d’amore. Poi arriva She di Charles Aznavour e la prospettiva si ribalta un’altra volta: Elvis torna a essere un crooner fuori orario, fuori pista e fuori controllo dopo una notte troppo alcolica. Affascinante o sconcertante, a seconda dei punti di vista.
Si ferma quando sono le 11 passate, per non togliere spazio all’ultimo set congiunto con Carmen e i suoi musicisti. Prende forma il promesso scambio di canzoni e di linguaggi, ma le parti aggiuntive e le rielaborazioni suonano spesso come innesti su corpi estranei e la performance ha il sapore di una mezza improvvisazione in difetto di prove e di rodaggio: come i cantanti beat inglesi dei ’60, Costello lotta goffamente con la metrica della lingua italiana in Le cose di sempre, Consoli se la cava decisamente meglio in All This Useless Beauty dopo avere ribadito che la bellezza che ci circonda inutile non è. Ricorda che entrambi, nella loro vita, hanno avuto una B importante: per lei è quella di Franco Battiato, omaggiato con una confusa e discutibile versione di Centro di gravità permanente a cui Costello, in italiano, aggiunge una divertente osservazione autoironica (“non sopporto i romantici irlandesi”) prima di tornare a indossare panni più comodi con lo standard Unchained Melody appiccicato in coda. Per lui, ovviamente, Bacharach, di cui la coppia riprende Please Stay, successo pop soul primi anni ’60 dei Drifters su testo di Bob Hilliard («chi di voi non conosce Seven Little Girls (Sitting In The Back Seat)?» scherza Elvis davanti a un pubblico preso alla sprovvista).
I colori mediterranei di Il pendio dell’abbandono e una liberatoria (What’s So Funny ’Bout) Peace, Love, and Understanding cui Consoli aggiunge in italiano una strofa con messaggio pacifista chiudono la serata lasciandoti interdetto a rimuginare sul retrogusto di questo stravagante mix, su ciò che è stato e su ciò che (forse) avrebbe potuto essere. I fan dei due artisti, che tributano alla coppia un’ovazione convinta e prolungata, sembrano pensarla diversamente e non si fanno troppi problemi. Si sono divertiti e per una volta ritrovati insieme: in questa prospettiva, l’esperimento sembra essere riuscito.