Se un giorno dovessi scrivere un biopic su una persona millennial, probabilmente sceglierei Neighborhood 1 degli Arcade Fire come colonna sonora della sua adolescenza. In realtà non credo serva per forza essere millennial per percepire che tracce come Neighborhood #1 (Tunnels) sembrano essere cucite sotto la tua pelle, con lo specifico scopo di generare maremoti di brividi.
La band di Montréal celebra i 20 anni di Funeral con un tour che è passato anche per Milano ieri sera – nello specifico tra la ruota panoramica di Rho Fiera e un cielo plumbeo tagliato da fulmini minacciosi che sembravano parte integrante della scenografia. Quella vera, una volta aperto il sipario rosso da circo, è sovrastata da un’enorme mirrorball, dietro alla band un gigantesco videowall e a fronte-palco un’imponente campana, che quando il vento gira dalla mia parte scopro essere un turibolo da chiesa.
Tutti noi respiravamo quel vento carico d’incenso mentre le nostre voci intonavano qualcosa che se ci pensi è molto più vicino a un coro gospel che a un coro da stadio (nello stesso momento, nella stessa città, più nello specifico a San Siro, circa 50 mila persone intonavano La dura legge del gol, non è forse ironico?). C’era aria di domenica, in fondo. Alcuni allo stadio, altri a messa.
A proposito di incenso. Non ero mai riuscita a mettere a fuoco il motivo per cui ho sempre sentito la musica degli Arcade Fire come qualcosa di profondamente spirituale (percezione sostenuta da titoli come Funeral, Neon Bible, My Body Is a Cage, Afterlife, Crucified Again… e dalla scelta della band di acquistare una chiesa per farne uno studio di registrazione) finché non ho scoperto che Win Butler e suo fratello Will vengono da una famiglia di mormoni.
In una vecchia intervista, Butler raccontava: «Non sono praticante, non vado in chiesa, ma quello che ho ottenuto dalla mia formazione religiosa è stato un senso di appartenenza a qualcosa di più grande. Quello che mi manca davvero è essere costretto a stare in una comunità con persone che non sono come te. Ti obbliga a lavorare sulle differenze tra te e gli altri. Penso che sia importante e che manchi nella cultura giovanile. Credo che alcune delle canzoni siano una reazione contro la tirannia della cultura giovanile, dove stai soltanto con persone che si vestono come te, pensano come te e ascoltano la tua stessa musica».
In effetti, il circo spirituale della band canadese, anche in uno spazio neutrale come quello di Rho Fiera (praticamente un parcheggio), riesce a mettere in scena una celebrazione collettiva della diversità, della stranezza e della non-omologazione, ben impersonata da Régine Chassagne, il vero punto focale della formazione. Emotiva, volubile, leggermente imperfetta in tutto quello che fa, Régine è la quintessenza di quella anti-coolness che probabilmente è stato il motivo per cui così tante persone si sono sentite parte di questa comunità di freak, così fuori dal tempo, fuori dal coro (o meglio, dentro a un coro stonato).
«Se si pensa all’impatto sociologico di internet, che ha portato a questa uniformità di gusto, questa omogeneizzazione di un certo tipo di freschezza, è spaventoso, perché si diffonde come un virus ed è difficile da contrastare. Penso che la nozione stessa della periferia nel senso autentico del termine – quell’espansione che rende tutto omogeneo di alloggi aziendali e centri commerciali – sia una metafora di qualcosa di molto più grande», diceva Butler nella stessa intervista.
Forse è questo il motivo per cui l’unico momento realmente stonato del live è stato quando sul maxischermo è comparsa l’immagine di Butler immerso nella folla, circondato da schermi di telefoni che lo riprendevano. In quel momento mi sono resa conto del luogo e del tempo presenti, e di quanto il presente, il futuro incalzante del capitalismo in declino (in cui il concetto di comunità è diventato un brand value da sponsorizzare su Instagram e ogni movimento collettivo diventa identitario fino a esaurirsi in una micro-nicchia incapace di dialogare con le bolle circostanti), sia sempre più lontano da quel mondo tenero, familiare, amorevole, funereo, distopico e rurale che soltanto i racconti di Saunders e gli Arcade Fire sanno rappresentare. Un mondo che forse non esiste più, ma in cui è emozionante poter tornare a immergersi anche soltanto per una sera.