L’Exit Festival è il Coachella dei serbi. O il Glastonbury, se vi va un esempio più recente e più europeo. Ci vanno in tanti, ne parlano in tanti, il suo logo è stampato pure sui pacchetti di una nota marca di patatine dell’ex Jugoslavia. Insomma è l’evento musicale più atteso dell’anno dai teenager locali (ci sono anche tanti stranieri). In più, cosa ben più diversa degli spiazzi immensi di Coachella o Glastonbury, si consuma in poco più di un weekend dentro una fortezza medievale sul Danubio.
Quest’anno c’erano i Cure, Carl Cox, Jeff Mills, Greta Van Fleet e una sfilza di DJ sterminata perché principalmente l’Exit parla la lingua delle macchine. È nato infatti vent’anni fa come party elettronico per universitari scalmanati e lo rimane tuttora, solo che 50mila persone al giorno non sono più catalogabili come party. Noi quest’anno c’eravamo e queste sono le cinque cose che abbiamo capito o di cui abbiamo avuto conferma definitiva.
I Cure sono meglio sotto la pioggia
All’Exit di quest’anno, dal 4 al 7 luglio, ha piovuto solo due giorni: il 4 e il 7 luglio. Ma mentre l’ultimo giorno la pioggia ha creato qualche incazzatura a chi voleva godersi in pace Skepta e Jeff Mills, il primo giorno ha solo reso più magico lo spettacolo dei Cure. Pareva fosse fatto apposta: nel main stage ha cominciato a gocciolare due minuti prima che Robert Smith e i suoi trotterellassero sul palco per esordire con Plainsong. Se poi teniamo conto che la piaga dell’Exit è la polvere, sollevata puntualmente da migliaia di piedi sulla terra battuta della fortezza di Petrovaradin, c’è solo da benedire la combo pioggia-musica dei Cure, che dopo il concerto lascia un’aria limpida e sicuramente più respirabile rispetto a tutti gli altri giorni, anche musicalmente parlando. Distesi, paciarotti, divertiti da un tour che sta lasciando tutti soddisfatti, i signori oscuri del new-wave hanno tirato dritti per un’oretta e mezza, interagendo poco con il pubblico e passando in rassegna 40 anni (compiuti da poco) di album banalmente leggendari. Va da sé che che essendo appena finito il tour australiano per i 30 anni di Disintegration, i ragazzi immaginari hanno sfoggiato una scaletta concentrata principalmente sull’ottava perla della loro discografia, uscita nel 1989. Per il gran finale Robert tiene da parte le cartucce più grosse da sparare: Friday I’m in Love, Close to Me, Why Can’t I Be You? e Boys Don’t Cry. Ma di boys che piangevano sotto il palco ce n’erano eccome. Solo che nessuno se n’è accorto per via della pioggia.
Se sei bravo, ti bastano una loop station e un microfono
OK, magari Dub Fx non sarà proprio la cup of tea di tutti, ma almeno riconoscergli un talento spaventoso, quello sì. Sul palco di sabato c’era lui, il suo microfono e una loop station, fine. Ogni tipo di rumore generato, dal basso wobble fino ai pattern di batteria, proveniva dall’ugola di Benjamin Stanford. Può sembrare una cazzata, ma tenere un palco per un’ora e mezza con solo due preset salvati in una macchinetta e un microfono è un lavoro mostruoso. Oltretutto il ragazzo australiano riesce a eccellere sia nel cantato (molto caraibicheggiante, ricorda quasi uno dei mille figli di Bob Marley) che nel rappato. Voto alto.
Carl Cox Presidente della Serbia
C’è questa foto spaventosa che sta circolando della mts Dance Arena di Exit all’alba. È presa dall’alto, forse un drone, e ritrae decine di migliaia di teste rivolte verso il palco. Sembra un rito messianico, un po’ come quelle funzioni religiose aperte al pubblico quando il Papa visita il Brasile o l’Argentina. Solo che stavolta sul palco c’era una consolle e al posto di Benedetto XVI il signor Carl Cox. Nella serata di giovedì, o meglio mattinata, il colosso dei quarti di cassa è salito in cattedra alle 5 spaccate di mattina per un back to back con Maceo Plex, e poi dalle 6 in poi da solo, con il sole che ormai era bell’e sorto. Ci fossero state delle urne all’uscita dell’Exit Festival quella mattina, molto probabilmente a quest’ora Carlone sarebbe Presidente della Serbia.
Se vuoi andare all’Exit, devi armarti di gambe
Essendo arroccato su una fortezza piena di mura e rientranze, l’Exit risulta un gigantesco dedalo di scale, pedane, salite e discese. Tante, ripidissime e un pochino pericolose se sei sbronzo o peggio. Qualcuno lo vedrà come un ostacolo, ma anche questo fa parte dell’unicità del festival.
Cari Greta Van Fleet, non sarete mai i Led Zeppelin
Ci sono delle cose che nell’arte sono ammesse dalla notte dei tempi. Una di queste è omaggiare i maestri del passato. Per cui, citare è ok, ma esiste un confine da non sorpassare a meno che tu non metta le mani avanti dichiarando “Siamo una cover band”. Un po’ ovunque si è scritto sui Greta Van Fleet e sull’eredità lasciata dai Led Zeppelin. Il problema è che quello del quartetto americano guidato da Joshua Kiszka è uno scimmiottamento pesantissimo di Robert Plant e band. Un conto è omaggiare e poi metterci del proprio, un altro è presentarsi sul palco a piedi scalzi, indossando jeans stretti a vita alta e imitare per filo e per segno le movenze, la voce, la capigliatura degli Zeppelin. Manca solo che si facciano le stesse canzoni. Dal vivo, si ha proprio l’impressione che lo Hobbit vestito da Robert Plant che sta al microfono abbia consumato ogni apparizione dal vivo degli Zeppelin e ne abbia assimilato per filo e per segno la mimica, le movenze. C’è un preciso motivo se nessuno dopo gli Zeppelin ha giocato a fare gli Zeppelin: vale a dire che nessuno è meglio degli Zeppelin.