In sintesi: che succede quando, dopo una gavetta lunga dieci anni, con tanti concerti per pochi affezionati, si diventa all’improvviso FA-MO-SI? Cioè, che succede quando le radio iniziano a trasmettere di continuo il tuo pezzo – che in pratica si trasforma in fenomeno di costume, ma rischia pure di fagocitarti la carriera pregressa – mentre sui social raccogli endorsement di influencer vari, e poi gli ascolti su Spotify volano, sei ospite fisso in televisione e il tuo pubblico si allarga in maniera trasversale, fino a gente che si fa i Tik-Tok con la tua canzone? Ecco, il live di ieri sera a Spoleto di Colapesce e Dimartino – il primo post Sanremo – è stato un test per misurare l’escursione termica fra il prima e il dopo, nonché un modo per capire come loro avrebbero reagito, di concreto e cioè dal vivo, alla fama. Sempre che si voglia schematizzarne l’ascesa così, certo.
In realtà ovviamente la loro storia è più complessa: sono musicisti con un background di livello assoluto, cantautori in senso lato diventati popstar non per caso, ma neanche perché abbiano voluto e cercato il successo a ogni costo. Quando nel 2020 era uscito I mortali – il loro primo, e finora unico disco a due – eravamo convenuti alla definizione di «pop d’autore», un qualcosa che sarebbe rimasto, sì, ma comunque non nel cuore di tantissimi, nonostante il singolo Luna araba registrasse – a sorpresa – numeri non da nicchia erudita. Ma insomma, restava roba di culto. “I normanni storditi da pozioni africane”, dai.
E pure il piccolo (causa pandemia) tour che ne era seguito ne aveva confermato l’impressione. Poi il Festival, alla vigilia del quale – consapevoli del potenziale del brano in gara – ci eravamo chiesti se, una volta usciti da lì, la gente li avrebbe fermati per strada. «Non pensiamo proprio», avevano nicchiato. Ciò che è successo dopo, lo sappiamo tutti, con Musica leggerissima che è stato il singolo più venduto del primo semestre del 2021. E quindi, eccoci qui: Spoleto, Duomo, Festival dei Due Mondi; sold-out, urletti, la fila per i selfie; musica leggera, anzi leggerissima. Non sono cambiati, i due, ma tutto intorno sì, eccome. Perché anche nel loro mondo è sbarcato quel bestiario tipico – nei rituali, nelle persone – del grande concerto pop, nel bene o nel male, che sia la coppia che limona su una cover di Povera patria che al momento è francamente un colpo al cuore o l’esagitato che chiede Musica leggerissima a ogni occasione, il pubblico un po’ occasionale ed eterogeneo nell’età coi suoi vizi o quello appeso alle finestre della Piazza (bellissima, un po’ borghese) in cui si svolge il live. E poi i grandi sponsor, le istituzioni, l’impianto muscolare. Mancano solo le fascette taroccate con su scritto “Colapesce Dimartino”, ma c’è tempo.
Il punto è che non si tratta di uno show – al contrario di quanto ci si sarebbe pure potuti aspettare – accomodante a questa nuova realtà, versione count-down verso la hit delle hit, anche se quasi metà della platea è lì per quello e loro stessi ci scherzano, piazzandola in fondo e liquidando il tutto con uno scherzoso e però veritiero «abbiamo quindici anni di carriera, fateceli godere». Semmai, siamo davanti al live del grande salto, certo, quello popolare nei codici, di ampia ricezione, ma al contempo pure raffinato nei suoni e nell’estetica (l’intro che ne precede l’apertura è Avril 14th di Aphex Twin), con un po’ di parlato spontaneo – all’inizio, va detto, sembrano un po’ ingessati, poi gli scambi di battute diventano più scorrevoli e ironici, settati sulla presa in giro reciproca – e qualche momento intimo. Quasi una versione potenziata di quello dello scorso anno, insomma. Tanto che persino il palco si presenta, sì, con pannelli sullo sfondo su cui far rimbalzare luci blu elettrico, rosso, verde acqua, ma poi rinuncia a facili visual o a un’illuminazione “smarmellata”, restando minimale, elegante.
Questo per dire che loro – in scena col completo sanremese di rito, ovvio, riconoscibilissimo – dal vivo mantengono il mood delle popstar disincantante e un po’ colte che abbiamo visto nella tv pandemica, altro che divi triturati dal sistema. E rendono compatta una selezione di pezzi colonizzata da I mortali, inserendoci classici del Colapesce pop (Ti attraverso, Totale, una Satellite addirittura del 2012) e quelli del Dimartino vestito leggero, come Giorni buoni e l’elettro-caraibica La luna e il bingo, tutte scandite a due voci. O meglio, anche di più, visto che il pubblico spesso le canta a squarciagola, per quanto chiaramente è più preparato sulle varie Adolescenza nera (in semi-versione hyper-pop), Rosa e Olindo, Noia mortale (quasi due power-pop), Luna Araba e la nuova Toy Boy, piuttosto che sui brani delle vite soliste. In ogni caso, gli arrangiamenti sono omogenei, con i synth sullo sfondo, le linee di basso di Dimartino (tra l’altro sottovalutato, come musicista) in primo piano insieme alle incursioni di chitarra elettrica di Colapesce (on fire su Cicale), e Adele degli Any Other ad aggiungere sfumature con sax, cori, altre chitarre, che spettinano la platea ma non la colomba che – placida, imperturbabile – dall’inizio si pianta sulla prua del palco, e niente la fa volare via.
Poesia, o teatro dell’assurdo. I due scherzano anche su di lei, parlano il giusto, col tempo prendono confidenza con lo spazio intorno e si rilassano, perché l’ironia e l’improvvisazione – a proposito, bella la lettura post-Sanremo della satira de Il prossimo semestre, come si era detto una sorta di Boris della canzone italiana – sono gli elementi che tengono coi piedi per terra un concerto che non dà mai l’impressione di essere una di quelle produzioni enormi e per questo difficili da dirottare per un attimo, nonostante poi il pubblico di riferimento sia quello. Tanto che c’è persino un momento unplugged, nella seconda parte, ovvero un frullatore in cui mettere brani loro, altri da solitari (Decadenza e panna) e altri ancora a cui hanno lavorato insieme come autori (Lo stretto necessario, per Levante). Va bene così, e dopo il rientro a pieno organico la stessa Musica leggerissima – attesa, urlata, ballata ai bordi della piazza e suonata in versione quasi uguale a quella studio – sorprende con una coda strumentale fra la psichedelia e l’elettronica più spigolosa.
Il pubblico è sazio, vai coi bis. Povera patria di Battiato – che con la loro voce rotta diventa più un tributo che un pezzo (post-)politico ancora attuale – e l’ultima Majorana, che è un pezzo acustico, ipnotico, amaro, «un pezzo per salutarci che parla di scomparire», far perdere le proprie tracce come Ettore Majorana e perché no morire, come del resto ricorda il titolo del loro album. Non certo un finale da classico concerto pop, ecco. Ma un finale à la Colapesce e Dimartino, quello sì, ormai l’abbiamo capito. Con un pensiero a chi era lì solo per Musica leggerissima.