Adele Nigro, in arte Any Other, è una di quelle persone che non fa nulla per risultare simpatica. Contattata oramai tre o quattro anni fa per un articolo, si offese non poco per i miei paragoni con PJ Harvey e Waxahatchee. Ne venne fuori una surreale accusa di maschilismo, sessismo o se la spiccia lei cosa, dettata dal mio collegarla ad altre artiste/donne piuttosto che un Lou Barlow o un Aberto Ferrari. Ecco, in ritardo per le barricate di piazza del 1968 e inadatta al devasto mentale dell’attuale scena italiana, per certi versi Adele Nigro è una di quelle femministe tendenti all’assurdo. Tipo certi vegani, o i terrapiattisti. Col rischio poi di passare per assolutista o prevenuta, se non pretestuosa. Intervistata da Andrea Coclite, a settembre, si scagliò contro le grida che arrivano alle artiste-spalla ai concerti, dal “facci vedere le tette” in poi.
Peccato che la gogna (anche brutale) del sottopalco per gli artisti-ospiti sia da sempre uno degli aspetti più “democratici” in circolazione. Elvis fischiato dai fan di Cash, i Doors mazzolati da quelli degli Stooges, i Pistols presi a sputi dagli ammiratori degli Slayer, i Maximo Park derisi dai sostenitori dei NIN, chiunque abbia la sfiga di suonare prima del Vasco, eccetera. E se la critica va a parare sull’aspetto più manifesto (l’essere donna, venduto, finito o semplicemente brutto a vedersi) non è detto escluda altri appunti di meno immediato eloquio. Per fortuna al Covo di Bologna non vola una mosca. Le uniche ad alzarsi sono le voci d’approvazione di chi è venuto ad assistere alla presentazione di Two, Geography – il suo secondo lavoro. Ad aprire le danze i tre giovanissimi Sleap-e, così (inconsciamente? all’epoca in pratica nascevano) anti-pop e anti-folk da risultare irresistibili. Quando terminano non c’è il “tutto esaurito” ma quasi. E sembra davvero emozionata la venticinquenne veronese quando con un filo di voce inizia ad approcciarsi al folto pubblico presente. A suo modo sensuale, labbra sottili e boccoli biondi, Adele Nigro però più che conturbante appare fragile e ipnotica come una figura lynchana.
A parte l’immaginario estetico, ciò che colpisce e coinvolge è un’intensità interpretativa autentica. Non sono tanto le belle canzoni a fare vibrare la sera, quanto – immaginiamo – quel suo riuscire a esprimere e condividere il personale sentimento che le ha generate. L’affezione progressiva di una patita di indie-rock à-la Built To Spill, Pavement e Dinosaur Jr. approdata verso il minimalismo, il free-jazz, il songwriting. Chiamatela, se volete, maturità. Il resto lo fanno la vocalità ora piena, ora carezzevole, il gioco di chitarre spettrale e sofisticato che non sorprende abbia ammaliato anche Colapesce (noto fan degli Swans) e Generic Animal, la suadente opacità del sound, la ricchezza scarna degli arrangiamenti creati col fido Marco e il nuovo entrato Nicolò alla batteria, lo studio inatteso e ora più raffinato delle dinamiche.
Anche se il set procede senza sorprese, seguendo lineare la composizione del disco, sorprende lo stato di grazia ed eleganza costante. Specie nelle acclamate Walkthrought, Capricorn No e Geography. Mentre è proprio quando ci si trova di nuovo davanti all’ingenuità del debutto, stasera sintetizzato dal manierismo un po’ ruffiano del singolo Something, dell’acre ballata da lacrimoni Sonnet #4 e delle abusate aperture sui ritornelli di His Era, che forse si comprende perché alcuni in passato abbiano dimostrato segni di insofferenza per un suono 90’s che sembra avere, nella migliore delle ipotesi, come propria α Alanis Morissette e Elliott Smith. De gustibus non est disputandum, relativizzando la massima cesariana. Vicino a noi, infatti, due ventenni borbottano che avrebbero preferito più brani vecchi e “meno pipponi” ma Adele ha di recente dichiarato che quelle canzoni ormai fanno tenerezza anche a lei. E se dice una cosa si fa prima a non contraddirla.