Nel 1987 Yngwie Malmsteen è una divinità norrena della sei corde, un nume scandinavo in grado di scagliare saette e fulmini sulle folle di poveri mortali ipnotizzati e atterriti dalla folle velocità con cui esegue sulla sua Stratocaster – non un’esitazione, non una sbavatura – vertiginose scale neoclassiche prese di peso da Paganini e Vivaldi e innestate su basi metal. È indubbiamente bello, la chioma leonina che incornicia un volto degno di un cattivo di Lady Oscar e un fisico scattante asciutto fasciato in abiti di scena anche quelli degni di Lady Oscar mentre volteggia sul palco brandendo la chitarra e inanellando una serie di riff fulmicotonici sulla tastiera in palissandro che a fine esibizione puzza quasi di bruciato.
Ha l’ego e il culto della propria personalità di un tiranno sudamericano, cosa che in passato lo ha fatto cacciare dagli Alcatrazz, una band troppo piccola per contenere due frontman: il cantante Graham Bonnet, dopo un feroce alterco col chitarrista, lo licenzia sostituendolo col povero Steve Vai (che giustamente si caca sotto), col risultato che Malmsteen, finalmente libero dalle costrizioni imposte dal ruolo di sideman che comunque non ha mai accettato, è libero di sfogare la sua furia chitarristica in progetti discografici che ottengono un grande successo soprattutto negli Stati Uniti e in Giappone.
Trilogy esce nel 1986 e sconvolge il mondo chitarristico per via dello stile del chitarrista, ormai giunto a totale maturazione: fortemente debitore di Bach, Vivaldi e Paganini, Malmsteen sembra il figlio di Ritchie Blackmore e Uli Jon Roth che è caduto nella pozione da piccolo come Obelix. Quando il mio compagno di banco delle medie Alessio mi presta la cassettina – è la prima vola che sento parlare di questo ragazzone svedese – resto imbambolato dalla strumentale Trilogy Suite Op. 5, la concretizzazione del concetto stesso di virtuosismo snocciolata attraverso sette minuti e rotti di metal neoclassico che sembrano la perfetta colonna sonora dello scontro con il megaboss di fine livello. La padronanza tecnica di Yngwie è indiscutibile, la velocità e l’esecuzione rasentano la maniacalità.
Insomma, nel 1987 è il dio svedese al quale sembrano prostrarsi tutti gli amanti dello shredding che ormai si annoiano col tapping di Van Halen. Peccato non duri molto. Alla fine degli anni ’80 arriva il grunge, una sottocultura germogliata negli Stati Uniti che fonde hard rock, nichilismo, l’estetica punk e l’approccio ruvido del do it yourself in una miscela esplosiva che trova nei Nirvana i propri apripista. Di colpo tutti vogliono jeans strappati e camice di flanella e il neoclassicismo metal barocco di Malmsteen diventa musicalmente rilevante come i dischi di David Hasselhoff. Ma lui non si arrende e anzi, persevera lungo il suo cammino fatto di scale armoniche minori suonate alla velocità della luce, pantaloni di (seconda) pelle, più oro addosso di un signore della guerra rumeno, la Ferrari parcheggiata fuori dal locale.
Passa il tempo, cambiano i gusti, le mode, le abitudini, ma non Yngwie che anche 40 anni dopo il suo esordio solista continua a sparare note come una mitragliatrice Gaitling incurante di ciò che i critici, Pitchfork, le case discografiche pensano di lui. E c’è poco da dire: trovo la sua musica più ripetitiva di un mid tempo degli AC/DC, ma la perseveranza, l’ossessività e la tenacia con cui persegue gli obbiettivi del suo personalissimo viaggio musicale meritano incondizionato rispetto. Certo, non tutto è proprio come ai bei tempi: ora Malmsteen non ha più l’aspetto figo di un cattivo di Intervista col vampiro, ma ricorda di più Mickey Rourke in The Wrestler. La sua stage persona, a cui lavora instancabilmente fin da ragazzino, oggi assomiglia a un character sopra le righe più sbruffone di un influencer di Dubai che vende corsi di trading e più incazzoso dei fratelli Gallagher dei bei tempi. Insomma, è uno che non può non starti simpatico. E così, quando durante una trasferta romana per lavoro il mio amico Antonio De Palo mi dice «oh, suona Malmsteen a Villa Ada, andiamo?» sento che i pianeti si sono allineati e che, alla tenera età di 49 anni, sono pronto per sorbirmi live per la prima volta la furia di Yngwie.
Malmsteen a Villa Ada nella mia testa suona un pò come Thanos al Centro Commerciale Il Gigante di Villasanta: un potente dio decaduto che si esibisce su un piccolo palco del parco dove Pier Francesco Pingitore ha girato la sua commedia omonima del 1999. C’è una commistione di epica tragicomica nell’aria, la vaga sensazione che stiamo per assistere a qualcosa che non dimenticheremo facilmente. Non c’è un gruppo di supporto, le casse sparano a un volume discreto Iron Man dei Black Sabbath a beneficio del pubblico, un manipolo di metallari che a occhio e croce avrà la mia età, quindi attempati. Il 90% sono uomini che sembrano dei figuranti speciali sul set di Sons of Anarchy. Io e Antonio sembriamo invece le versioni comprate su Wish di Johnny Depp e Benicio del Toro in Paura e delirio a Las Vegas, drammaticamente decontestualizzati, Filini e Fantozzi nei frac a noleggio per il ricevimento in Casa Serbelloni Mazzanti Viendalmare.
Le luci si abbassano e la musica sfuma: il Metal Paganini entra in scena, anticipato dal solito fraseggio neoclassico supersonico che è il suo marchio di fabbrica. Si inizia con Rising Force, No Rest for the Wicked e Soldier o almeno credo: ogni sforzo compositivo del virtuoso svedese, ogni forma canzone a me è sembrata sempre un’intelaiatura pensata più per sostenere le sue scorribande solistiche che un brano musicale coeso in cui la chitarra è solo uno degli strumenti coinvolti. Per essere sicuro di non sbagliare chiedo ai miei vicini, che indossano tutti maglie di Malmsteen ma rispondono con poca convinzione anche loro.
Ma non è per le canzoni di Malmsteen che siamo qui stasera, lo capisco dopo pochissimo. È per lui. Per preparami a questo live non ho ascoltato niente di suo: non avrebbe avuto senso, il 70% della sua produzione mi sembra tutta pericolosamente uguale. Ho invece interpellato il mio amico Luca Milieri. YouTuber, insegnante di chitarra con una passione per lo shredding più vertiginoso, considera Yngwie il suo eroe personale, tanto da riuscire a emularne lo stile in modo convincente sulla sua fedele Fender Stratocaster Signature Made in Japan. Mi dice che sì, musicalmente è sicuramente un po’ ripetitivo, ma la grandezza di YJM risiede altrove. Nel suo suono pazzesco, perfetto, che incorpora la frenesia neoclassica di Ritchie Blackmore e la vibrante vitalità blues di Hendrix. «Nessun virtuoso della chitarra è come lui, né Satriani, né Vai, nessuno spettacolo live simile è paragonabile come forza espressiva. Suonano tutti perfettini, cercano di assomigliare al disco, usando le sequenze… tutto bello, tutto preciso per carità, ma succede un po’ poco. Invece quando lo vedrai sarà come andare a vedere un concerto rock negli anni ’70. È violento. Lui sale sul palco e ti prende a calci per due ore. Malmsteen è un personaggio mitologico, potrebbe essere un cattivo di One Piece. E non dimenticarti che ha 60 anni. Dalle mie parti a quell’età giocano a carte e bevono bianchini».
Bastano i primi tre minuti per capire che Luca ha sintetizzato perfettamente questa esperienza. L’impatto è devastante: Yngwie ha la stazza di Hulk Hogan ma si muove sul palco come se fosse il suo salotto, salta di qua e di là nel suo sudario di pelle, sferra calci a mezz’aria, addosso ha in oro il PIL del Benelux e strapazza la sua Stratocaster Signature come se gli dovesse dei soldi.
La macchina del fumo avvolge la sua figura di antieroe tragico mentre fasci di luce fucsia, verdi e giallo acido illuminano il quartetto, che suona come l’ispanico e i suoi che combattono nell’arena del Gladiatore: come un sol uomo. Non si fanno prigionieri. Si prosegue con la scaletta ma tra un brano e l’altro, un tour de force orgiastico, una cavalcata delle valchirie ascoltata a 2X, c’è al massimo mezzo secondo di pausa. La band, orchestrata dal líder máximo, suona come se dovesse comprimere il set in 20 minuti perché ha un altro concerto in un’altra location. È una follia. Mi guardo in giro e vedo facce con gli occhi sgranati: questi sono i suoi fan, il suo pubblico, ma anche loro faticano a decifrare perfettamente a cosa stanno assistendo.
Malmsteen suona nei primi cinque pezzi più note di quante Jeff Beck, Eric Clapton e Jimmy Page abbiano fatto insieme in tutte le loro carriere sommate. Nessuna fuori posto, nessuna sporca o poco risonante. Questo vecchio svedese non è umano. E dopo una descrizione come questa in genere scatta la classica osservazione: meglio poche note suonate con sentimento, che una mitragliata di note alla velocità della luce senza’anima, less is more. E io posso anche essere d’accordo. Il fatto è che Malmsteen sta suonando come se alla fine di ogni brano si aspettasse di essere giustiziato da un plotone d’esecuzione. Ogni nota che esce dai suoi polpastrelli sembra l’ultima. Ogni vibrato, ogni bending è carico di energia drammatica, Yngwie non si risparmia, la sua figura imponente che si staglia contro il suo insensato muro di amplificatori Marshall. Il minimalismo, la lezione di Miles Davis per cui lo spazio vuoto tra una nota e l’altra è importante quanto la nota stessa, ovviamente non appartiene al virtuoso scandinavo. Attacca Far Beyond the Sun e penso ad alcune sue dichiarazioni che hanno cementato il suo status di personaggio larger thaan life. «Less is more? È una minchiata. Come fa less ad essere more? More is more! Ci sono solo due cose che si vedono della terra quando sei in orbita intorno al pianeta: la muraglia cinese e il mio muro di testate Marshall».
Ha senso suonare davanti a 300 metallari di mezza età in un parco vicino a un laghetto che l’indomani ospiterà un “laboratorio di riciclo e pittura in cartapesta per bambini a cura di Wendy” con oltre 40 testate Marshall? Probabilmente no, ma Yngwie se ne fotte di quello che ha senso per gli altri, conta solo quello che ha senso per lui. Cambia una chitarra dopo ogni pezzo ma è identica alla precedente: una Strato del 1974 color vintage blonde che costa come la tua macchina e che lui fa sinistramente volteggiare intorno al suo generoso dolcevita lanciandole poi al suo roadie (che abbiamo scoperto fare quindi un lavoro straordinariamente rischioso).
Il concetto di musicista individualista sembra essere stato coniato apposta per lui: il palco è il suo regno, una minuscola porzione è riservata ai suoi comprimari (Emilio Martinez al basso, Nick Marino alle tastiere e voce, Kevin Klingenschmid alla batteria), musicisti straordinari ai quali basta un’arcata di sopracciglia del loro capo per chiudere il pezzo, aumentare il ritmo o smettere di suonare e levarsi di culo per lasciare tutta la gloria all’eroe. Succede abbastanza spesso e in questi momenti più intimi Malmsteen dà sfoggio delle sue incredibili capacità citando Brian May e il suo uso del delay o usa il potenziometro del volume per fare i suoi volume swells che simulano il suono di un violino.
Ammetto che dopo un’ora e mezza di concerto mi sto un po’ annoiando, i limiti competitivi del nostro si fanno sentire, ma quando attacca You Don’t Remember, I’ll Never Forget, un vecchio successo della sua età dell’oro, il pubblico si rianima per il gran finale. La musica è finita, il circo lascia la città (domani YJM suona in Francia) e mentre io e Antonio torniamo ai nostri giacigli passiamo in macchina davanti all’Olimpico, dove Max Pezzali ha appena concluso la sua data capitolina del tour degli stadi. Ci spiace per il buon Max, ma stasera l’ottavo re di Roma è un 61enne di Stoccolma.