Rolling Stone Italia

Essere David Gilmour oggi

Al Circo Massimo di Roma per vedere un musicista non più impeccabile, ma pur sempre straordinario e mai così umano. Ed è una cosa che vale quanto cento assoli finali di ‘Comfortably Numb’

Foto: Francesco Prandoni

Piccolo disclaimer: mi accingo da watersiano incallito a scrivere un pezzo sul perché vale ancora la pena di vedere David Gilmour dal vivo, ma prometto che questo non inficerà l’obiettività della mia disamina. Nella parte conclusiva dell’ottimo documentario Wider Horizons, Gilmour rimarcava con orgoglio il fatto di essersi voluto spesso esibire, con e senza Pink Floyd, in luoghi di particolare fascino, convinto del fatto che il pubblico sia in grado di percepire meglio la sua musica quand’è suonata in posti suggestivi. Va da sé che la scelta del Circo Massimo di Roma appare come la migliore possibile per gli unici (ultimi?) concerti in un Paese legato a doppio filo alla storia live del gruppo inglese. Certo è che impossessarsi per una settimana del Circo Massimo per ricavarne 15 mila posti a sedere a serata appare quantomeno bizzarro e puzza un po’ di speculazione per alzare ancora di più i prezzi dei biglietti, ma questa è una considerazione che esula dalla riuscita dello spettacolo.

È inevitabilmente un tour popolato di fantasmi quello partito lo scorso venerdì, totalmente in linea con la cupezza e il senso di caducità di un album come Luck and Strange. Se infatti fino a una decina di anni fa le ombre più ingombranti restavano quelle di Syd Barrett e dell’eterno rivale Roger Waters, oggi è chiaro che l’assenza più significativa non può che essere quella di Rick Wright, scomparso poco dopo le session da cui in qualche modo ha preso vita il disco in questione.

Eppure, quella mostrata da Gilmour è sempre una malinconia composta, mai strombazzata, quasi uno stato della mente che da sempre accompagna la sua musica e che non ha bisogno di ostentazioni. Non lo sentirai mai dire «questa è per Rick» e «questa è per Syd» e lo stesso vale per gli altri suoi stati d’animo, più o meno nobili. Poi ognuno di noi sa perfettamente dove trovare ogni cosa. Della serie chi vuole capire capirà. Qualcosa di simile all’Eric Clapton descritto da Pattie Boyd in Life In 12 Bars: «Io gli parlavo di cose per me importantissime e lui mi rispondeva con un accordo». Tanto per i messaggi più espliciti sappiamo che ci sono sempre la moglie Polly Samson e i suoi profili social dietro cui nascondersi.

Semmai, rispetto a otto anni fa, è l’evidente fragilità del chitarrista ad accentuare l’emotività dello show: Gilmour e la moglie, sempre più capace di esprimere a parole gli stati d’animo del compagno, non parlano di sofferenza da un punto di vista esterno. Da narratori, insomma. Raccontano qualcosa che stanno realmente vivendo. In questo senso, David è puro e onesto quanto Roger Waters, solo che quest’ultimo filtra ancora il proprio malessere (e il proprio egocentrismo) attraverso temi sociopolitici, mentre lui lo fa mostrandosi vulnerabile. E non basta la solita t-shirt, in barba a una serata tutt’altro che mite, a farcelo sembrare immortale o invincibile come ogni eroe dovrebbe essere: David arranca, talvolta anche la sua voce lo fa, ma sempre con estrema compostezza e quell’aplomb che tradisce ancora una volta le sue origini.

Foto: Francesco Prandoni

Esattamente come l’ex compagno, poi, David non dà al pubblico tutto ciò che vorrebbe e il risultato finale gli dà assolutamente ragione, perché alla fine dimostra di credere fortemente nel suo presente e di poter uscire vincitore anche senza una set list piena di brani del «genio creativo dei Pink Floyd». Si prende anche qualche rischio, perché suonare una decina di brani solisti, sacrificando roba come Shine On You Crazy Diamond, per dire, non è cosa da tutti. Questo fa sì che possiamo ascoltare quasi per intero l’ultima opera, costruita sulla vocalità odierna di David e dunque perfetta anche dal vivo e capire che persino il precedente Rattle That Lock non era poi così male come l’avevano dipinto. Senza contare il ripescaggio di brani come Marooned e A Great Day for Freedom da quel discone invecchiato molto bene di The Division Bell.

Dunque, per tornare a dove tutto è iniziato: vale ancora la pena di vedere dal vivo David Gilmour? Pur essendo evidente il tratto di retoricità della domanda, la risposta poteva non essere così ovvia, ma sì, ne vale ancora ampiamente la pena. Se non altro perché sarebbe come aver aver avuto la possibilità di andare a sentire Mozart e Paganini e non averlo fatto. Per cose come i Brit Floyd e similia ci sarà tempo. Quelle di Luck and Strange sono davvero le cose migliori fatte da Gilmour dopo il 1973? No. Così come probabilmente non sarà il tour più bello della sua carriera. Ma un Gilmour così umano sicuramente non si era mai visto e questo per me vale cento assoli finali di Comfortably Numb.

A proposito di assoli, una piccola nota di colore: a metà della terza data romana, sul finale di High Hopes, con tutto il Circo Massimo ad aspettare lo splendido assolo con la pedal steel di Gilmour (una delle più grandi testimonianze dell’esistenza del divino), qualcosa va storto: lo strumento sembra staccato. David inizia a suonare, ma nessuno lo sente. L’effetto è straniante. Come prendere in mano un bicchiere convinti di bere un rosso di Montalcino e assaporare invece un vino da discount. Assolo saltato, dunque, come solo nei sogni più perversi di Roger Waters. Qualcuno, alzando lo sguardo al cielo, giura di aver visto formarsi tra le nuvole il volto ghignante di Rog, come nella celeberrima scena del Re Leone.

Iscriviti