C’è un passaggio della frastornante e ricchissima autobiografia di Elton John, Me, Elton John, in cui l’artista inglese racconta della sua voglia di ritirarsi: un desiderio che costantemente torna a pungerlo come uno spillo, e che con altrettanta regolarità viene messo da parte in favore di una sempre ultima, imprevista sorpresa che la dimensione del palco, nella sua esperienzialità emotiva e fisica più spinta, sa riservargli.
Ha suonato in ogni condizione e con chiunque: sbronzo, strafatto, lucidissimo, con i cantanti che amava quando era bambino e con quelli amati dai suoi figli, lo ha fatto vestito da Minnie, da Paperino, da moschettiere, da gatto, da donna, persino da gorilla per sorprendere Iggy Pop che lo aveva sconvolto magnificamente poco prima, live con gli Stooges e che, sotto acidi, pensando di essere inseguito da un gorilla vero, più che stupirsi, fuggì urlando. Ha venduto più di 300 milioni di copie dei suoi dischi, il che significa aver detto qualcosa, fosse pure una, minuscola, a centinaia di milioni di persone anche mentre non si trovava fisicamente su un palco. Cosa manca? Evidentemente nulla per ritirarsi dalle scene a 75 anni – che a fine tour saranno 76 – e dedicarsi, parole sue, ad annusare i fiori con suo marito David e crescere i loro due figli godendoseli fino all’ultimo, cose che a questo punto dovrebbero essere quasi un dovere; tuttavia, lui stesso, lo ha scritto e detto molte volte: anche il palco, in un certo senso, è una dipendenza.
Ieri sera a Milano, però, nella città che gli fece scoprire il suo grande amico Gianni Versace, al centro di un San Siro sold out, di fronte a un pubblico di 50 mila presenti, Elton John sembra aver detto sul serio e per l’ultima volta addio ai concerti, portando in scena l’ultima data italiana di una storia artistica luminosa, pionieristica, sfaccettata e lunga più di mezzo secolo. Se nel 1973, quando suonò per la prima volta a Milano al velodromo Vigorelli, la strada della fama e dello stravolgimento emotivo ed esistenziale da essa generati venivano salutati con un goodbye in quel capolavoro di pop e architettura melodica inglese che è Goodbye Yellow Brick Road, oggi quel goodbye lascia spazio al farewell, all’addio, appunto, come indica proprio il nome di questo ultimo tour.
Ventiquattro pezzi, incluse tutte le sue hit, in un’infilata quasi senza sosta: due bis, due cambi d’abito, tre paia dei suoi mitologici occhiali (sì, anche quelli a froma di cuore), un tripudio Gucci di giacca scura, poi color pastello, infine una vestaglia, e poi gli immancabili diamanti e lustrini, e insomma tutto quello che ti aspetteresti ma con, in più, la sorpresa della realtà vis-à-vis, di quando ci si trova davanti a una figura divertente e commovente che ha incarnato fisicamente un centrale cambiamento della prospettiva sonora ed erotica della musica pop.
A sorprendere dunque ci sono una tenuta vocale straordinaria, inattesa e una incredibile capacità di modulare le forze, qualcosa di quasi scientifico, il frutto effettivo dei decenni trascorsi sui palchi: la gestione sapiente e puntuale della forza performativa e più strettamente musicale non solo, naturalmente, da parte della popstar ma di tutta la sua band, senza che mai si rinunci all’incandescenza dell’esito, a svelarsi in un output caldo, emotivo, coinvolto. Un palco bellissimo e rivelatore, dove i musicisti sono come incastonati con i loro strumenti in simboliche nicchie che costruiscono i mattoni della Yellow Brick Road, il pianoforte che pattina da un capo all’altro, due batterie e le percussioni di Ray Cooper (da George Harrison al Tuffatore del nostro Flavio Giurato) a garantire adeguato spazio alla poliritmia essenziale nell’impianto del repertorio dell’artista. Una serata di caldo implacabile, col sole su San Siro che sembra non tramontare mai (sto citando, quasi inavvertitamente), sui maxischermi si alternano animazioni e fotografie, un eccesso di immagini che inizialmente sembrano persino distogliere l’attenzione dai pezzi, ma anche momenti sorprendenti come quello che ha incluso gli scatti di Martin Parr (sulle note di I Guess That’s Why They Call It the Blues).
Se il suono dello stadio come sempre sembra stritolare i bassi, il lavoro di continuo sconfinamento del pop nel rock’n’roll e viceversa – cifra stilistica e di scrittura essenziale e prima di Elton John – non cede neppure un istante al tempo passato, all’età media della (grande) band né allo spazio fisico. Il risultato si mostra riuscito, come sempre accade, se a essere riuscito è il dialogo col pubblico: incandescente e indomabile su Levon, Crocodile Rock, The Bitch Is Back, sulle bellissime immagini pop arty e sul gran tiro di I’m Still Standing; commosso sugli iter autobiografici cinematografici (su Don’t Let the Sun Go Down on Me scorrono le immagini del biopic Rocketman) e reali (Goodbye Yellow Brick Road) e in religioso silenzio su Your Song, quel pezzo scritto in pochi minuti, una mattina, che visto fare davanti ai occhi impone un rincaro sulla sospensione dell’incredulità, perché difficilmente, altrimenti, potresti credere alla sua esistenza, essere musicale respirante, tangibile, fatto di suono e voce umana.
Esiste, inoltre, di fronte a spettacoli come questo, una quota di indicibile che valica l’indicibile connesso al valore del repertorio e riguarda la portata del personaggio, il suo ruolo storico, il suo valore extramusicale connesso alla storia del costume e della cultura popolare e dunque umana del mondo. È qualcosa che in questo caso riguarda ciò che è stato mosso, le prese in carico dell’artista per liberare qualcuno oltre sé stesso. In questo senso è anche commovente pensare che questo live finale delle storia dell’artista Elton John, con tutto ciò che oltre la musica significano i suoi milioni di dischi venduti e messaggi inviati ai giovani di più generazioni ovunque nel mondo, inauguri in qualche misura anche un nuovo mese del Pride.