Ieri sera alla Casa del Jazz di Roma Vinicio Capossela ha dedicato un doppio “Concerto di màrtiri e martìri di San Valentino per solo piano, voce e strumenti spaiati” ai consueti intoppi che le persone particolarmente intelligenti incontrano nel definire l’amore, specie se nel corso di una festa comandata a esso dedicata.
Roma è irreale ma, per questo, perfetta nell’accogliere il pubblico lungo il tratto di mura aureliane che separa Porta Ardeatina dalla Cristoforo Colombo. Fuori traffico, alcove pop-up tra i mattoni sbrecciati e i profilattici ingialliti dal sole; dentro prati colti, rastrelliere per bici e Vinicio Capossela che attacca puntuale. Contenitore e contenuto della Casa del jazz, lavorando di comune accordo, ci trasportano in un’epoca che sembra lontanissima dall’attuale, in cui le ultime testimonianze ancora in piedi del veltronismo, per una volta, non fanno a sportellate con le vestigia in rovina dell’impero romano e, più in generale, del pianeta.
È uno spettacolo musicale dal piglio particolarmente immersivo quello che si para davanti a una platea che, per tutta la durata della scaletta, è illuminata da una luce radente rossastra ed è così vicina, col corpo e la mente, all’artista, da percepirne non solo ogni modulazione di voce e concetti, ma anche i sospiri, i soffi, gli sbuffi; da toccare quasi con mano gli occhiali da vicino che egli inforca o smarrisce, i riccioli della barba che inanella tra le dita, la condensa sull’Ichnusa che sorseggia, le pagine di spartito che non riesce più a leggere, finendo per andare a braccio, e tutti gli altri effetti speciali organici e non di una performance di Capossela da camera: forse il formato ideale per non consumare ma per conservare, seppure sia irriproducibile, la fruizione dal vivo della sua musica d’autore, e certamente una forma di realtà virtuale che nessun paraocchi tecnocratico, nemmeno una futura release davvero funzionante di Apple Vision Pro, potrebbe mai restituire.
Vinicio appare sul minuscolo palco davanti a un pianoforte a coda. Porta in mano un cappello rosso a tricorno cuoriforme. In quel copricapo – che resterà sempre in primo piano, posato sulla cassa del piano o accanto al leggio, ma non calzerà mai – c’è, di fatto, tutto il concerto: chiaro segno che l’amore non può essere indossato o tantomeno sfoggiato, ma solo vissuto e cantato in tutte le sue possibili forme, anche le più dolorose, anche quelle che fanno emergere le nostre contraddizioni e quelle del mondo.
«Ho pensato di autopunirmi con un concerto da solo per celebrare l’amore», esordisce. Sul palchetto compariranno anche il violinista Raffaele Tiseo e la cantante Irene Sciacovelli, ma quello che Vinicio vuole significarci è che, anche se il problema centrale dell’amore può e deve essere risolto almeno in due, spesso è nella relativa solitudine che riusciamo a porcelo con più efficacia.
Come alcuni film impossibili – ad esempio quelli tratti da Proust, Cervantes o Federico Moccia – diventano possibili solo perché decidono di incarnare, più che la trasposizione del racconto originario, l’impossibilità stessa del lavoro del regista, così Capossela affronta il tema dell’amore. La sua sembra la risposta definitiva del cantautorato sia alla banalizzazione della concezione del sentimento amoroso offerta dalla società contemporanea che agli ultimi ritrovati della scienza e della tecnica, che spingono come ossessi all’altissima definizione di contenuti che spesso non hanno troppa voglia di essere definiti.
Non è un caso, dunque, se la lunga scaletta monografica sulla sfera affettiva che seguirà non includerà – come dirà lo stesso Capossela, «per rispetto» – anche Che coss’è l’amor. Sarebbero state troppo facili le possibilità di sintesi offerte dal verso: “Son monarca e son boemio”.
Si apre con Bestiario d’amore, ieri vero manifesto poetico inteso di un’esperienza di ascolto aumentata. La platea intimamente rischiarata dalle luci, spesso formata da coppie, non è visibile solo all’artista, di cui diviene di fatto musa in presa diretta, ma si vede benissimo anche tra sé e sé. Ciascuno spettatore è allora pronto, e quasi invitato, a riconoscersi – o a riconoscere nel suo accompagnatore – una delle casistiche elencate da Vinicio. L’uditorio sembra popolarsi delle tante creature sciorinate, dall’asino selvaggio alla scimmia ripetente, e diviene così illustrazione del racconto caposseliano delle deformazioni del sentimento che, da questa sera, comprenderà anche le creature che scelgono volontariamente di passare la sera di San Valentino con Vinicio Capossela che ne canta la fenomenologia.
Che i pezzi successivi siano ispirati a Lieder schubertiani o ad antologie poetiche sulla solitudine dei vivi (Waynesburg, Ohio); che sottendano ad amori erranti o a relazioni più stanziali o addirittura domiciliate, per ciascuno dei presenti è pronta una diversa metafora dell’amore, dal cui significato si sentirà, di volta in volta, chiamato in causa come destinatario o mittente.
Tra un pubblico così assorto e un palco così ispirato non volavano baci o carezze, tipiche di serate sanvalentiniane più ortodosse; ma semmai collegamenti ipertestuali invisibili, altrettanti inviti all’ascolto di Capossela e dei propri cuori che, probabilmente, non sarebbero rimasti tra le pareti della Casa del jazz.
Più volte, invano, Vinicio domanda al pubblico di sostituire gli applausi scroscianti con degli schiocchi di dita, «più carbonari», per preservare l’intimità della percezione. Altrettante volte gran parte dell’uditorio ne ignora la richiesta, suscitando reazioni tipicamente romane tra i più integralisti dei crepitii: «Dopo che i cafoni si sono presi la Casa del jazz, non so, vendiamoci il contrabbasso e amen».
Il primo dei due set (entrambi da tutto esaurito) si conclude con un fuori programma che, com’è giusto che sia, presenta un colpo di scena. Al posto di Ovunque proteggi Vinicio esegue Però quasi, a dieci anni dalla scomparsa di Roberto “Freak” Antoni.
Seduti e concentrati, com’eravamo stati fino a quel momento, quali allievi e, al tempo stesso, campioni umani di un teatro anatomico sul cui tavolo operatorio il professore aveva dissezionato e asportato organi e concetti dal nostro corpo, davanti all’intensità dell’omaggio al grande Freak, è come se avessimo assistito all’estrazione a sorpresa del cuore dello stesso chirurgo.
Ieri Capossela ha dimostrato una volta di più quello che deve essere uno spettacolo dal vivo di musicante. Non una sospensione, per quanto ben orchestrata, della vita, ma ambire a includere la vita all’interno della scaletta. Il concerto di Vinicio ha perfino avuto la grazia di non ambirci neanche, di farlo e basta, come una coppia, risolta nella sua coscienza di essere irrisolvibile, non ha bisogno di alcun atout o autocertificazione di quello che vuole sentire o che desidera fare, ma sente e fa e basta; somigliando, in questo, alla relazione che intercorre tra suonatore e strumento, musica e testo, pubblico e line-up, e tra le due metà di qualunque altro duo degno di essere celebrato senza alcuna retorica se non quella offerta di simboli che scoccano spontanei come baci rubati.