Passiamo dall’asfalto alla terra sabbiosa di un sito in costruzione. Forse stiamo facendo una qualche effrazione, ma non è il momento di pensarci. Chiediamo indicazioni a sparute figure nel buio, perse come noi. Continuiamo il viaggio, separati. Un’ombra si allinea e ci segue. Scherziamo (…scherziamo?) su come potrebbe ucciderci e nascondere i nostri corpi nelle fondamenta di questi modernissimi palazzi in costruzione. Potremmo diventarne i fantasmi sbronzi e gettare il quartiere nello scompiglio per secoli a venire. A causa di una serie di incomprensioni con le mappe dei nostri smartphone, brancoliamo da più di mezz’ora tra dune di terra e i resti di un attracco portuale. In lontananza echi sommessi di una cassa techno. Mi faccio fotografare sopra ad una ruspa pompando i muscoli che non ho mai avuto. Raggiungiamo due relitti di barche arenate in un parcheggio, qualcuno le ha squattate; è il punto di riferimento che ci è stato dato. Poco distante, a bordo del molo, la cassa techno diventa un after. Silhouette nere si divincolano in uno scoordinato rito collettivo. Hannah decide di razziare il piccolo bar acquistando – con carta aziendale – un disastroso numero di Original Long Drink, lattine di gin e pompelmo che spopolano tra i finlandesi. Ho conosciuto Hannah la sera precedente in un karaoke angusto e facciamo parte dello stesso press trip qui ad Helsinki. La cassa ritorna ad essere un eco lontano mentre ci immergiamo nel buio. Hannah è il mio spirito guida in questo viaggio nell’oscurità. Sembra una di quelle persone su cui far affidamento quando, prendendomi a braccetto, mi sussurra “It’s the right way, trust me”.
Cazzi nudi ritiratisi per il contrasto continuo di caldo e freddo, natiche al vento, rotolini di grasso e muscoli snelli, e ancora seni, vagine, peli, palle, sudore. Una calda pace pacata. Questo è quello che troviamo davanti ai nostri occhi, alle tre del mattino, quando io e Hannah raggiungiamo finalmente Sampasauna, una sauna occupata gestita da volontari nascosta all’interno del nulla di questo cantiere. Me ne hanno parlato come una sorta di after per veri locals. E così pare, è tutto intimo, e nudo. La sauna è unisex e nudista, come da tradizione finlandese, quindi, senza vergogna, ci spogliamo. Ok, con un filo di vergogna, giusto il tempo di notare che se sono tutti nudi, sarebbe più weird rimanere in intimo. Appendo i boxer ad un palo lasciandoli sventolare come una bandiera pirata. Mi sento un conquistatore. Tra le tre piccole saune che compongono questo agglomerato di benessere anarchico, c’è un pianoforte dove una pianista nuda suona per un pubblico nudo che nudo si unisce in coro per il refrain di Hey Jude. I finlandesi si prendono gioco di noi e continuano ad alzare la temperature delle saune finché il nostro stesso fiato brucia come fuoco e ci costringe a buttarci nel mare gelato della tiepida estate finnica. Le membra rinascono, la stanchezza del weekend sparisce, mi ricongiungo con me e la natura. Con il mio bollente corpo vergine immerso nel mare nero di Finlandia penso a quante esperienze incredibile si possono avere quando ci si lascia trasportare dagli estranei, dagli eventi, dai festival. Dal caos. O, in questo caso, da Hannah.
Il Flow Festival ha sede tra fabbriche dismesse nel centro città di Helsinki. Lo si raggiunge comodamente in metro o in bicicletta come la distesa di due ruote parcheggiate all’entrata fa intuire. Ottantamila presenze, otto palchi e un’attenzione per l’ecosostenibilità (è carbon-free) che si incarna in quel pensiero tipicamente nordico di un futuro possibile in cui l’uomo non è un malvagio capitalista sfruttatore trumpiano, ma un naturalista rispettoso e attento al prossimo. La collettività (emblema del concetto originario di festival) è il cuore pulsante per il funzionamento di un organismo così imponente. Quindi immaginate l’ironia di essere arrivato in un paradiso di umanità nello stesso weekend in cui il governo italiano si sgretola a favore dei neofascisti ripuliti. I finlandesi, popolo progredito e magnificamente proiettato nel futuro, riescono velocemente a farmi dimenticare i drammi della madre patria a colpi di sostenibilità, gentilezza, attenzione verso il prossimo.
Stupito dalla mancanza di qualsivoglia droga (dimenticatevi le nuvole d’erba e le pupille dilatate dei festival mediterranei), mi muovo tra i palchi con la mia scorta di Original Long Drink (mi piace scriverlo per intero perché è come se da noi una birra si chiamasse Birra Originale – che comunque comprerei immediatamente, nda). Di seguito alcune riflessioni sulle performance a cui ho assistito.
Solange domina la scena con una performance raffinata ed elegante, tutta coreografata, dimostrandosi un’artista completa a cui forse mancano ancora un po’ di hit (rubale a tua sorella, sista!). I Cure si dimostrano all’altezza della loro storia con il set più lungo dell’intero festival, due ore dentro la carriera dei nostri darkettoni preferiti anche se, per tutto il tempo, non posso scindere Robert Smith dallo Sean Penn di This must be the place di Sorrentino: mindfuck. James Blake è il migliore amico che tutti vorremmo, l’essere umano più dolce del mondo, e canta così bene che ci ritroviamo tutti abbracciati e lacrimanti sulla conclusiva Don’t Miss It, la sua ballad più sincera e onesta. Robyn è la regina del pop moderno, Erykah Badu la nostra guida spirituale, Neneh Cherry una gioia infinita. Tove Lo si denuda a favore del free the nipples. Impeccabili (quasi alla noia forse) i Tame Impala, bellissimo Blood Orange nonostante quella fissa per le bandane brutte. Le sorprese sono Nao e Flohio (quanto è forte? Assurda), le conferme gli storici Stereolab e Father John Misty, l’unico hipster amato da tutti, sempre fedele a quella combo che davo per morta di barbona e mocassino. Quello che però preferisco del Flow sono i quattro palchi elettronici in cui si passa dalle sperimentazioni di Jlin e Aisha Devi (un’aliena!) ai mix audaci e post africani di Juliana Huxtable, dagli eventi tenuti dalle house finlandesi di voguing al set di chiusura del festival della granitica Nina Kravitz.
Per le speranze italiane c’è Donato Dozzy con la sua techno prelibata che mi entra nelle vene e mi nutre quando pensavo di non averne più e Gabber Eleganza che distrugge il Red Garden Stage con il suo Hakke Show, un dj set / performance di musica gabber hardcore per cui gli inglesi attorno a me impazziscono fino al punto in cui sogno di poter tornare ad indossare quella mia vecchia felpa Lonsdale. Mi stupisce la musica finlandese con IBE, un trapper con band che qui da noi ci sognamo e che in un paio di settimane ha fatto due milioni di stream in una nazione da sei milioni di abitanti, Chisu, una sorta di Bjork pop, e Alma, la Billie Eilish finlandese che troviamo tutta bella fatta (ah, ma allora qualche droghina esiste anche ad Helsinki!) all’after della domenica in cui suona un’ispirata Avalon Emerson.
Per il nostro ridicolo salario minimo, la Finlandia è un filo proibitiva; un cocktail costa come una casa al mare e tutto pare sovraprezzato. Ma visto come butto soldi per cazzate e aperitivi a Milano, forse sarebbe meglio risparmiare e fuggire lassù a riscoprire il concetto di futuro come un qualcosa di reale e positivo piuttosto che rimanere qui ad alimentare la narrativa distopica di un’apocalisse imminente. Dopo un weekend di piatti vegan e energia rinnovabile, di collettività e saune nudiste, come posso tornare ad attendere l’Apocalisse sul divano di casa?
Se volete vedere il futuro, e ascoltare artisti che mai passeranno in Italia, il Flow Festival ed Helsinki sono un buon punto di partenza. Perché c’è ancora una possibilità in Europa e – soprattutto – un’Europa possibile.