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Gazzè, Silvestri e Fabi al Circo Massimo, la rivincita dei buoni e degli intonati

«Non ci sono dubbi che l'amore esista»: questa la frase, pronunciata da Silvestri, che riassume il concerto in data unica che ha riunito i tre per il decennale del loro disco 'Il Padrone della Festa'. E che ci ha fatto sognare, per una notte, una musica italiana diversa
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Foto: Umbi Meschini

Di norma i fratelli vicini d’età (e con comitive compatibili) cui i genitori – in chiave di razionalizzazione logistico-finanziaria – fanno celebrare i compleanni in simultanea, organizzano le feste più belle perché dispongono di budget e platee più ingenti rispetto ai party monofiglio. Tuttavia i festeggiati, soprattutto quelli di orientamento materialistico, tendono un po’ a risentire del fatto che spesso, in queste occasioni, i regali siano presentati in regime di comunione dei beni.

Ma ieri sera al Circo Massimo, per il concerto con cui Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè hanno salutato il decennale dal loro disco Il Padrone della Festa, il pensiero portato in dono dagli ospiti era così inestimabile che il fatto stesso che fosse indivisibile lo ha reso ancora più gradito. E così cinquantamila persone si sono ritrovate tra gli invitati senza sapere di essere anche loro tra i festeggiati.

Tutto ciò che i tre ci avevano promesso a fine maggio, comprese le sparate più grosse («sarà tutto così normale da essere speciale»), è stato puntualmente mantenuto o superato.

Ok, il presupposto di questo concerto era che, se te ne piace uno, allora ti piacciono anche gli altri due. Si finisce invece per tornare a casa con la consapevolezza che Fabi, Silvestri e Gazzè, insieme, hanno funzionato così tanto che, tutto sommato, non solo il concetto del concertista solista sia un po’ da rivedere, ma anche che proprio l’idea di fare le cose da soli sia superabile. Allo stesso modo, guardando il palco, superavamo l’idea che non sia possibile essere sia amici che colleghi o sia artisti che persone; oppure, guardando il pubblico, che non si possa essere, al tempo stesso, coniugi e complici, genitori e figli, e via dicendo.

Non è stato insomma il solito concerto, così come quello che Gazzè prometteva alla sua interlocutrice, nell’omonima canzone, non era Il solito sesso. Sono state tre ore piene di musica (trentadue brani di cui sei acustici in trio; due eseguiti dalla Magical Mystery Band di Silvestri; uno, Giovanni sulla Terra, eseguito per la prima volta dal vivo; e ben sei bis), precedute da altre tre in cui non è che si sia stati con le mani in mano, eccetto per applaudire quello che, più che un preconcerto, appare strutturato e cadenzato come un villaggio vacanze pop-up a tema cantautorato romano.

Dalle 18:00 fino alle 19:00 proiezione di video messaggi di saluto da parte di amici/artisti del trio (Renzo Arbore, Brunori Sas, Caparezza, Antonio Diodato, Don Dante Carraro dei Medici con l’Africa CUAMM, Frankie Hi-Nrg, Fiorella Mannoia, Sergio Cammariere, Rocco Papaleo, i Subsonica). Alle 19:00 esibizioni di Anna Castiglia, Emma Nolde e Daniela Pes. Fino alle 21:00, orario di approccio al palco, puntualissimo, dei tre protagonisti (di cui uno, Gazzè, festeggiava realmente i suoi 57 anni), erano previsti laboratori didattici per bambini e famiglie.

Non appena Fabi, Silvestri e Gazzè cominciano a suonare, cantare e parlare è subito evidente che faranno tutto quanto in loro potere per rendere la vita impossibile a chi volesse giocare a scegliere il suo preferito dei tre.

La loro simbiosi è tale da tramutarli ancora più che nel 2015 (erano all’Ippodromo delle Capannelle), in una strana boy band anti-leaderistica, in cui le peculiarità distintive di ciascuno dei membri non sono l’orientamento dei ciuffi o il gusto in materia di outfit, ma caratteristiche psico-attitudinali più marcate: come la sensibilità strappacellulare di Fabi, la buffoneria armoniosa di Gazzè, la favella, impunita e impunibile, di Silvestri.

Nella scaletta non c’è un pezzo dell’uno che non sembri stato scritto anche per gli altri due, e non c’è brano scritto a sei mani che non potrebbe essere interiorizzato del tutto da quello che lo attacca per primo, mentre gli altri lo sostengono, lo accompagnano o lo scimmiottano con eguale affetto. Non hanno niente da dimostrare, se non che l’autentico senso della loro idea di musica dal vivo sia indimostrabile a chi non sia qui. Non a caso a questa serata non seguirà un tour. Sono così diversi da quello che si vede e si ascolta in giro di questi tempi che sembrano geneticamente modificati; anche se, in verità, è il resto del mondo, semplicemente, a non essere certificato bio come loro.

Dal palco un manto di gentilezza musicale e generale si estende sul Circo Massimo, dalle prime postazioni del pit fino agli ultimi teli mare aperti sul pratone. Anche pompieri, buttafuori e steward sono una triplice alleanza perfetta, che non si pesta i piedi vicendevolmente, come può accadere in occasione di eventi grandi al pari di questo.

Chissà se qualche corpuscolo di questa urbanità diffusa non riesca a infiltrarsi nel consueto eccesso di particolato prodotto dal traffico del sabato sera, tutto intorno a noi; così come la regia del drone suggerirebbe, simbolicamente, quando la sua inquadratura sconfina dal retropalco sul Lungotevere adiacente (spoiler post-rincasata: no).

Tra i brani il trio indulge spesso a mostrare video di sé in Sud Sudan o foto d’epoca al Locale (prima più giovani e impacciati, ora più giovani dentro e sicuri di sé). Anche se è, letteralmente, come se Niccolò, Daniele e Max ci mostrassero più volte diapositive di un viaggio, le accettiamo di buon grado. Non è solo una questione di evidente cuteness dei tre o di nostro attaccamento nei loro confronti. Semmai è questione dell’evidenza che quei viaggi, nel tempo e nello spazio, li hanno portati qui da noi, e tanto ci basta. Perfino quando tirano fuori filtri anzianità che li proiettano nel futuro, magari alla prossima reunion, non sembrano mai a caccia di facile viralità, ma semmai di contatto con il pubblico e con nuove fasi del linguaggio che possano parlargli più chiaramente.

Così come non si avverte mai il protagonismo di un membro del trio sugli altri, non si percepisce alcun protagonismo dei tre rispetto al pubblico. Non è retorica da cronisti musicali, così male abituati da finire in preda a un sovradosaggio di entusiasmo per una botta di qualità; ma una realtà, aumentata dalla poderosa amplificazione, ma pur sempre una realtà.

Anche il fatto che le ospitate vere e proprie (Rancore) si contino sulle dita di una mano tipica da pubblico boomer felice (con l’indice alzato), la dice lunga sul fatto che qui lo special guest, di nuovo senza retorica, è l’uditorio, cui i tre dedicano tutta l’attenzione che è possibile dedicare a più di cinquantamila persone contemporaneamente. “Un saluto anche a tutti quelli che stanno là in fondo e che non riusciamo a vedereeee”. Illuminano le ultime file del pratone: “Ecco ora li vediamoooooo”. Basta poco, a volte, per fare una grande differenza.

Alcuni dei bis, in particolare, giocano a ribaltare le intenzioni semantiche iniziali dei brani, quasi sempre non con la semplice intenzione di omaggiare il pubblico, ma di parlarci.

Lasciarsi un giorno a Roma, va da sé, ci parlerà principalmente delle difficoltà, altrettanto sentimentali rispetto a quelle cantate un tempo da Fabi, di scendere dal palco (lato loro) e fare a ritroso la strada verso il motorino (lato nostro). Meno scherzosamente, più avanti, Silvestri chiederà e otterrà che i cinquantamila del Circo Massimo stiano in silenzio, e muovano solo le mani, mentre canta A bocca chiusa e vengono proiettate le immagini conclusive di C’è ancora domani di Paola Cortellesi (che poco prima, dal maxischermo, aveva domandato i bis al trio che minacciava di aver già concluso lo spettacolo).

Nell’immensa platea non c’è isteria, non ci si infervora, c’è un fitto dialogo con il palco, invisibile ma perfettamente udibile. Le cose più notevoli che succedono nella folla qui convenuta sono gli striscioni contro la guerra (che seguono al corteo di solidarietà con il popolo palestinese che ha percorso Roma nel pomeriggio) e un venditore di bibite, con la sua cassetta gialla poggiata sulla testa, che viene scambiato da qualcuno per un rider sperduto in mezzo al pit, quando lo attraversa da parte a parte, leggermente disorientato. Fabi, Silvestri e Gazzè cantano Una musica può fareanche per lui.

Il Padrone della Festa conclude, come fu nel 2015, la scaletta, e trascende la metafora della natura che lo guida in quella della dinamica tra musicisti e pubblico. L’albero al centro della scenografia, che era centrale anche nel senso dell’album che stasera si celebra, è percorso dalle radici ai rami da una linfa luminosa. Quella linfa non è cangiante solo nei colori, ma anche nella direzionalità: così come pubblico e artisti sono nei processi che portano all’ispirazione e al successo tutti i musicisti che tengono conto della realtà, sia quando scrivono che quando eseguono le loro creazioni.

Assistiamo in pratica a un colossale ripasso sui motivi per cui si va a un concerto: uno, arrangiamenti nuovi di brani che conosciamo a menadito; due, la presa diretta del “recitativo” tra i pezzi; e tre, il valore aggiunto dall’esperienza collettiva dei due primi punti.

Silvestri, nel trio, è evidentemente quello armato di maggior parlantina e lucidità e spolvera, a tratti, una conduzione vagamente televisiva, se la televisione fosse ancora una cosa piacevole. Parlando con il pubblico ricorda che il primo palco che calcarono insieme, trent’anni fa, era grande la metà del sottopalco di stasera. “Chi di voi ha fatto in tempo a venire al Locale? Tu no, zitto, c’avevi 12 anni”. Gazzè, pensieroso, lo interrompe, ossessionato com’è dai dati tecnici, non senza essere poi selvaggiamente sfottuto da Silvestri: “Vabbè, forse un po’ più della metà”. Silvestri continua proiettando la foto del Locale di 30 anni prima e dice, “Fabris, guardate com’eri e guardate come sei”. Ma ecco che Fabi, forse nel momento di maggiore adorabilità in assoluto della serata (con l’eccezione dell’esecuzione di Facciamo finta), aggiunge: “Non so se eravamo veramente meglio prima”. Gazzè fa seguito con una versione acustica di Quel che fa paura (pezzo d’epoca Locale), appunto, da paura.

Ma verso la conclusione l’emotività farà breccia anche in Daniele: “Questo pezzo ci serve a ringraziare il quarto elemento del trio, nel cui studio abbiamo registrato molte di queste canzoni. Si chiamava Gianluca Vaccaro. Non ci sono dubbi che l’amore esista”.

È possibile, oggi, fare un concerto rilevante sia dal punto di vista umano che economico? Le opzioni, prima di questa sera, erano tradizionalmente due. Da una parte, dichiarare l’intenzione di non stare compiendo un’operazione discografica, cosa che diventava essa stessa l’operazione discografica. Dall’altra, restare davanti a una platea appassionata ma semivuota, lasciando serpeggiare lo spauracchio più temuto dal talento musicale (e da diverse altre forme contemporanee di esso): la famigerata nicchia.

Ma al Circo Massimo siamo stati al cospetto di un trio e quindi, per forza di cose, si è fatta avanti una terza via, il cui pregio non è solo numerologico-cabalistico, o puramente artistico, ma soprattutto dialettico e partecipativo. Così, questo concerto non è stato solo una festa riuscita, come ha detto Niccolò Fabi, commosso, ma è stato anche un lunghissimo film ucronico che potrebbe avere per tagline una frase breve: come sarebbe la musica italiana nel 2024 se avessero vinto i buoni e gli intonati.

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