Vasco Brondi ha 37 anni, si esibisce in giro da più di 15 e immagino ne abbia viste di tutti i tipi. Eppure questa non gli era ancora capitata: suonare in contemporanea a una semifinale dell’Italia all’Europeo di calcio. «La cosa più temuta di una band si è avverata», aveva scherzato sui social annunciando che l’inizio del concerto di ieri a Villa Ada, Roma, sarebbe stato di conseguenza posticipato alle 22.45, al termine del match, motivo per cui – come ha spiegato sul palco – si è fatto pure un caffè «per abituarsi al fuso orario, nonostante non ne beva mai». E dire che la previsione è stata comunque ottimistica, perché gli Azzurri sono andati oltre, ai rigori, sovrapponendo il tifo – e i sospiri, e le urla, e i curiosi che non riuscivano a stare sereni – della zona adibita per il maxischermo ai primi 40 minuti del live.
Che poi: fosse stato uno show muscolare, da muro del suono, sarebbe stato diverso; ma il live di Paesaggio dopo la battaglia, semmai, è più simile a una di quelle sedute di meditazione che tanto affascinano lo stesso ex Le Luci della Centrale Elettrica da qualche anno, e che sempre da qualche anno ne hanno contagiato l’immaginario. Tant’è che per scrivere l’ultimo album, racconta in una delle pause, ha seguito la filosofia di alcuni monaci zen che si dispongono in cerchio, in silenzio, e prendono parola solo per dire qualcosa che gli faccia tremare la voce. «Ne deve valere la pena. Io ho ragionato così, e poi ho cercato sempre la verità».
Tradotto: un live di questo spirito di base potrebbe avere tutte le difficoltà del mondo a resistere a un sottofondo del genere. Invece ci è riuscito, un po’ perché Brondi è professionista di spessore che cura ogni dettaglio, e un po’ perché tutto sommato l’aura seriosa che siamo portati ad attribuirgli non è così univoca. Lui scherza: «Suonare in una situazione del genere è una trovata di marketing». Citando direttamente un suo brano, Mistica, viene piuttosto da pensare che questo appuntamento funzioni perché lo è davvero, “mondano e mistico”. O meglio, perché è lo specchio completo di tutte le anime di protagonista appunto “mondano e mistico”, al primo giro vero – cioè con una band al completo e un disco di inediti – da quando ha spento Le Luci. Tenero e violento, meditabondo e danzereccio, incazzato e sereno. Con coerenza, con l’onestà intellettuale tipica della casa.
Su un palco spartano, con zero visual (ah) e un telo nero sullo sfondo a raccogliere le ombre dei musicisti e di Vasco stesso, che con barba lunga e anfibi balla scoordinato, emozionato e mai divo (del resto, canta lui stesso, “è un superpotere essere vulnerabili”), seduto su uno sgabello o in piedi, passano i brani di Paesaggio dopo la battaglia ma anche classici, spesso spogliati della primordiale veste punk-cantautorale e sistemati dentro i confini della world music d’autore, elettroacustica, a sposare sintetizzatori e pianoforti, archi e chitarre elettriche, cori profondi e percussioni sintetiche. Perché questo è un live che non rinnega niente del passato, anzi racconta come Brondi da ragazzino in fiamme sia diventato uomo saggio, come dalla smania adolescenziale derivi la serenità di oggi, a ritroso fra totem tipo Le ragazze stanno bene (del 2014), esempi di cut-up d’epoca à la Quando tornerai dall’estero (addirittura del 2010) e le nuove 26000 giorni che come un augurio a “rivelarsi” apre il live, Mezza nuda, Città aperta, Paesaggio dopo la battaglia (che sentita dal vivo dopo ciò che abbiamo trascorso è un bel colpo al cuore, ed è uno dei pochi riferimenti alla pandemia insieme a un sentito “è bello rivedersi al di là degli schermi”). E poi citazioni di Ghandi, poesie di Mariangela Gualtieri e Bukowski messe in coda alle canzoni per farci ben sperare (“gli dei aspettano di compiacersi in te”, recita Hank ne Il cuore che ride), letture di Tondelli, insomma il lato conscious – intimo, emotivo, da focolare – che lui è maestro nel portare in scena, e maestro pure nel tenerlo in equilibrio coi momenti più movimentati, come la zingarata di Qui che fa alzare le prime coppie a ballare, o come i pezzi che fanno sgolare gli spettatori.
Già, perché Vasco è uno dei pochi con un pubblico davvero cresciuto con lui. Ok, magari ieri non c’erano i ragazzini né i più anziani la cui presenza per certi artisti è una medaglia all’onore, ma fra le sedie di Villa Ada stava un’intera generazione, quella dei millennial, qualcuno persino coi figli piccoli dietro, quella che ha cominciato con Canzoni da spiaggia deturpata condividendone la rabbia e ora è diventata “adulta per tentativi”, fra fallimenti personali e collettivi. Viva nei pezzi vecchi come in una canzone d’amore atipica quale l’ultima Due animali in una stanza, che racconta «la trecentesima notte insieme», cioè «né l’inizio né la fine di un rapporto, ma ciò che sta nel mezzo, che Ungaretti chiamava “la quiete accesa”». Va bene così, ci si evolve senza snaturarsi, e questo concerto ne è un manifesto.
C’è una cover – ed è un novità, perché di solito in scaletta ne mette almeno due – ovviamente stravolta, e per questo tour è Bandiera bianca di Franco Battiato, già richiamato in sottofondo in apertura e poi di nuovo in chiusura, «un omaggio a lui che ha allargato i confini delle canzoni». La trasforma in una ballata d’autore e il momento è paradossale: mentre qualcuno si alza per vedere il rigore decisivo di Jorginho, con conseguente boato da fuori, lui si trova a cantare “com’è difficile restare calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore”. Per fortuna l’Italia ha il suo lieto fine, e il concerto è in discesa con la gente più distesa a ballare, cantare, abbracciarsi. Arriva il trittico “emiliano”, «in onore a una terra da cui non vedevo l’ora di andarmene e dalla quale poi non me ne sono mai del tutto andato», con La gigantesca scritta COOP in acustico (peccato, non si poteva proprio provare qualche sporcizia elettronica?), poi La terra, l’Emilia, la Luna, quindi Adriatico, finché Chakra non fa scendere qualche lacrima e Ci abbracciamo – l’ultima, prima dei bis – non apre all’unico momento pop.
Tante facce della stessa persona, quindi, direi della stessa anima. Al rientro, ancora un saliscendi emotivo con l’intima e lugubre Chitarra nera, infine la ballad Forma di fulmine fa cantare davvero tutti, in piedi. “Possiamo illuderci, ballare stando fermi e fare caso a quando siamo felici”. Le luci si accendono. Ci guardiamo, ce l’abbiamo fatta. Siamo qui, «insieme nello stesso momento». Adulti per tentativi. Mondani, mistici. Con l’Italia e Vasco Brondi. Sul palco, fra poesie sussurrate, monaci tibetani, sorrisi grandi così e ritornelli pop riconosciamo il ragazzino di quasi quindici anni fa. E noi con lui.