Questo pensavo mentre la gente saltava e i Baustelle cantavano della sedicenne che prima d’ammazzarsi scrive un messaggio con una Bic profumata. Pensavo che i personaggi di molte canzoni del gruppo, da questa ragazzina che si perde nel crack a quelli che organizzano concerti per restare vivi, e poi la cameriera che sogna di sfondare a Los Angeles, Charlie che si cala l’MDMA e tutti gli altri magnifici freak dei Baustelle non fanno altro che cercare d’aggrapparsi a qualcosa nella consapevolezza che la vita è insensata. Questo pensavo mentre i sette sul palco suonavano La guerra è finita evocando nella stessa canzone, nello stesso istante una lieve malinconia e una strana consolazione, un filo di disperazione col quale vien voglia d’impiccarsi e una gioia irrazionale. È musica che ti fa sentire vivo facendoti sentire un po’ male.
Il concerto sold out di ieri all’Alcatraz di Milano (si replica stasera) ha dimostrato che la rifondazione dei Baustelle è un successo. Raramente li ho sentiti così forti, comunicativi, solidi. Con così tanto corpo, direi. Non male per una band che ha pubblicato il primo album 23 anni fa. Si sono americanizzati, non solo perché il disco nuovo evoca il mito di Elvis, la parte decadente e quella vivifica, ma perché portano sul palco una versione del classic rock, due o tre chitarre e organo Hammond compreso, bagnato dalla superonda della stagione d’oro delle colonne sonore italiane e con il solito santino dei Pulp sullo sfondo. Julie Ant, Alberto Bazzoli, Lorenzo Fornabaio e Milo Scaglioni s’aggiungono al trio base formato da Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi, Claudio Brasini e portano quel che gli anglofoni chiamano musicianship, roba fuori moda ma utilissima quando devi far saltare e ballare 2000 e passa persone. Il concerto di ieri ha dimostrato che i Baustelle sono capaci, specie con la nuova formazione, di fare musica diretta e con un bell’impatto emotivo, a tratti viscerale, che è un aggettivo che non si trova spesso associato al gruppo. Lo fanno nella migliore tradizione rock, senza piegarsi ai cliché, ma mettendoci il loro sguardo e il loro mondo.
Ai tempi di L’amore e la violenza la scenografia del concerto evocava Discoring e gli anni ’70. Oggi è elegantemente rétro, più anni ’60, con un grande drappo, la scritta “baustelle” in corsivo che s’accende e spegne facendo leggere ora “bau” e ora “stelle”, una dozzina di fari puntati sul pubblico, una cornice stondata al neon. Elegante ed efficace, è il Comeback Special dei ragazzi di Montepulciano, che non andavano in tour da un pezzo. «Elvis non è morto», esclama a un certo punto Bianconi. Nemmeno i Baustelle.
Dice Bianconi che la gente continua a chiedergli il significato di questa o di quella canzone, ma che in fin dei conti parlano tutte d’una cosa sola: la nostra vita. Abbandonati i collage metamoderni, quelli che affastellavano immagini e suoni presi in prestito per ridurre la distanza tra ironia post moderna e sincerità novecentesca, i Baustelle hanno ripreso a cantare le nostre vite sconsacrate, dai progressisti milanesi che contemplano le proprie contraddizioni ai provinciali infoiati dalle spogliarelliste dell’est. A volte si contestano ai Baustelle le pose distaccate e intellettualoidi o le musiche e i testi estetizzanti. Non è quel che s’è visto e sentito ieri. Troppo compassato per disperarsi, ma anche troppo incline all’intelligenza speculativa per godersela e basta, Bianconi non m’è parso lo snob di cui tanti parlano, ma un autore che osserva il mondo e lo racconta con toni quasi giornalistici a cui è sottesa un bel po’ di compassione. Mi è parso di cogliere una voglia rinnovata di condivisione, con Francesco più sciolto del solito e Rachele entusiasta che canta e balla e va su e giù per il palco rompendo un tacco. “Vi amo tutti”, dice l’epitaffio scritto sulla tomba del dandy di Un romantico a Milano, uno dei pezzi forti della serata. Sentire la frase cantata da tante persone l’ha fatta sembrare vera.
È un tipo d’amore che all’Alcatraz s’è percepito forte e chiaro, dall’attacco quasi alla Van Morrison di Andiamo ai rave che ha aperto il concerto alla Canzone del riformatorio che l’ha chiuso. Lo si è sentito nell’entusiasmo del pubblico, nei cori, negli applausi finali a luci accese, nello strano affetto che provi per musicisti che ascolti da anni e ti sembra quasi di conoscere anche se non è vero. I classici sono ovviamente quelli più partecipati, ma i pezzi nuovi hanno una cantabilità che viene esaltata in concerto e Amanda Lear è rallentata fino a diventare stranamente toccante, un pezzo new wave privo dell’aria sbarazzina che aveva sei anni fa. La gente impazzisce quando nella seconda parte s’ascoltano i pezzi provenienti da un passato ormai remoto. Il primo bis è Le rane: il tempo fugge nella canzone, che si basa sul meccanismo del ricordo, ma anche nella vita reale per chi l’ha sentita e amata per la prima volta tredici anni fa. Anche qui, la celebrazione si mescola a un pizzico di mestizia, ma in definitiva all’Elvis Tour ci si diverte, e tanto.
La sera prima dei Baustelle all’Alcatraz c’era Lucio Corsi, meno gente, stesso entusiasmo. È amico della band, ha aperto per loro, è nel coro che chiude Il regno dei cieli, la canzone di Elvis in cui s’invoca l’intervento del Signore, che ci venga a salvare “quando ho sete o fame o devo vomitare” e “quando il giorno brucia e in tutto il suo squallore appare”. Corsi e Bianconi sono diversissimi, ma credo stiano facendo qualcosa di simile. Entrambi affrontano con la musica l’assenza di significato – gli si può anche dare un significato politico, l’insoddisfazione per una vita regolata dal mercato. Uno lo fa in modo letterario, l’altro è più letterale. Forte di una fantasia sfrenata e d’uno spirito fanciullesco, Corsi trasfigura ogni cosa, animata e non, in una grande fuga salvifica che non è pura evasione, bensì un invito a reimmaginare il mondo. Bianconi canta la vita com’è, in modo assieme spietato ed empatico, sfidando il grande nulla.
È una lotta impari, ma se Elvis si chiude con una consapevolezza maturata durante un volo dal quinto piano, pochi secondi prima di sfracellarsi contro il suolo, dal vivo anche le vicende più cupe sono riscattate dal calore rinnovato delle esecuzioni e della partecipazione del pubblico. “Niente dura per sempre, nemmeno la musica”, dice una canzone che s’è sentita ieri sera. Sarà anche vero e sarà anche giusto, ma se non altro per un paio d’ore hai l’illusione che la musica ti protegga dal niente.