Roger Waters ha sempre detto che per tutta la sua vita non ha fatto altro che scrivere e cantare di una cosa sola: le relazioni tra gli esseri umani. Questo signore di 74 anni si è caricato addosso il peso della mancanza di empatia nell’umanità e del fallimento della nostra evoluzione rappresentato dalla guerra e dalla povertà endemica, e lo porta in giro per il mondo esplorandolo, enfatizzandolo, sbattendocelo in faccia sulle note di canzoni che sono entrare a fare parte della nostra coscienza, ergendosi come una specie di titano sulle architetture simboliche dei Pink Floyd. Questo è il senso del suo tour mondiale Us+Them, iniziato il 26 maggio 2017 a Kansas City, passato dall’Australia, arrivato in Europa a Barcellona il 13 aprile e in Italia il 17 aprile con la prima di due date a Milano (le prossime saranno a Bologna il 21, 22 , 24 e 25 aprile, più due concerti-evento a Lucca il l’11 luglio e il 14 al Circo Massimo di Roma) per finire a dicembre 2018 in Messico dopo aver attraversato il Sudamerica.
La sua è un’idea di musica immaginifica, un’immersione in un mondo di suoni e immagini perfettamente coordinate che fanno sognare e poi riportano bruscamente alla realtà: l’inizio dello spettacolo è cosmico, con l’immagine di una sfera che galleggia sul mondo sulle note solenni di Speak to Me/ Breathe, poi l’orizzonte si chiude e diventa claustrofobico con One of These Days tra corridoi vuoti di supermercati e desolazione postindustriale e prigionieri senza volto, e poi ancora un salto dall’assoluto di Time e The Great Gig in the Sky all’incubo di Welcome to The Machine con i disegni inquietanti creati da Gerald Scarf.
Nella prima parte dello spettacolo (in totale sono 20 canzoni divise in due atti), più forte nei contenuti e meno scenografica, la band è quasi schiacciata dall’enorme schermo che la sovrasta, come se stesse eseguendo dal vivo la sonorizzazione di un lungo film, poi Roger Waters comincia ad ergersi come un gigante, un monolite umano che riflette la verità del presente con la trilogia di brani dedicati alla guerra e ai rifugiati: Deja Vu, Last Refugee e Picture That.
Quando tutto si spegne e riappare con la chitarra acustica per Wish You Were Here, si capisce che lui per primo sta cercando di fare pace con tutto quello che ha intorno. La rabbia che brucia nello sguardo e scorre nelle sue lunghe braccia aggrappate al basso suggerisce che la creatività per Waters è frutto di un’insofferenza personale e il palco è il luogo di una battaglia emotiva.
Contro noi stessi innanzitutto, per risvegliare i valori fondanti del senso di comunità e poi contro il potere. All’inizio e alla fine dello show c’è la stessa immagine struggente di una donna migrante seduta su una spiaggia che osserva il mare. Il resto è un crescendo emotivo di denunce sociali in slow motion, dal Venezuela alla Siria, il ritratto spietato di una realtà profondamente ingiusta e allo stesso tempo il tentativo di svelarne gli aspetti più grotteschi e assurdi. Waters ha spiegato in una sola strofa del brano Deja Vu la ragione di tutto quello che sta accadendo nel 2018, “The Bankers Get Fat” e sbatte in faccia al pubblico un mondo di droni e bombe che distruggono all’improvviso e apparentemente senza motivo rappresentando il potere, i governi e l’economia come un serraglio di animali mostruosi. «Ci sono due cose che amo dell’Italia» dice Waters «Aiutate i rifugiati del Mediterraneo e non avete armi nucleari. Dobbiamo dire a quei pazzi che ci governano che in noi c’è amore, che teniamo alle persone e che vogliamo organizzare questo fragile pianeta in modo più solidale».
Il concerto è un enorme punto interrogativo rivolto al pubblico: è questa la vita che vogliamo veramente? Perché proprio mentre dovremmo essere più consapevoli siamo indifferenti e silenziosi? Sono i temi di Is This The Life We Really Want ma anche quelli di The Wall del 1979 o Animals del 1977 e Waters sottolinea che niente è cambiato aggiornando l’immaginario dei suoi pezzi classici al nostro tempo. Per Another Brick in the Wall salgono sul palco dei ragazzini vestiti come prigionieri di Guantanamo che dopo il coro si tolgono la tuta e mostrano una maglietta con la scritta Resist: «In ogni città in cui suoniamo imprigioniamo e incappucciamo dei ragazzi» grida Waters «Ma si liberano sempre tutti nel nome della resistenza!».
Il momento più spettacolare è quello dominato dalla meravigliosa scenografia della Battersea Power Station di Animals che fluttua sul pubblico e svolge il ruolo del Muro nel rappresentare, riflettere ed ingigantire i mali del mondo. Waters la usa per scatenare la sua rappresaglia contro Donald Trump mentre la band esegue in modo impeccabile Dogs, Pigs e Money. Prima la scritta “Aiuto siamo intrappolati in un incubo distopico”, poi le frasi più folli di Trump (da “Il mio pulsante nucleare è più grande” al celebre “Grab ‘em by the pussy”), il maiale che vola sul pubblico con la scritta Piggy Bank of War e un enorme, inequivocabile messaggio in bianco e nero: Trump è un maiale .
E proprio quando tutto sembra assumere i contorni del grottesco, il muro della Battersea Power Station si dissolve sulle note di Us and Them e riporta alla realtà con immagini mozzafiato di guerra e povertà. Ma per Waters esiste una forma di catarsi ed elevazione: con Brain Damage e Eclipse emerge il prisma di luce, intorno al quale orbita una luna che mostra solo la sua faccia scura. Il titano è senza voce, ringrazia il pubblico e finisce con la dolcezza di Mother e quella domanda che aleggia sul nostro tempo “Mamma, credi che sganceranno la bomba?”. Scende persino a stringere delle mani in prima fila durante l’apoteosi di Comfortably Numb mentre sullo schermo due mani si avvicinano lentamente sulle rovine del mondo e infine si stringono, per ricordarci che il Muro è ancora lì e tocca a noi abbatterlo.