Do you realize?, forse il brano più famoso dei Flaming Lips, racchiude solo in parte lo spirito freak, gioioso e ottimista della musica della band fondata a Oklahoma City nel lontano 1983, che ha continuato a rinnovarsi trovando come inusuale fil-rouge una serie di linguaggi musicali e meta-musicali che li pongono sempre in bilico fra genialità sperimentale, buffonaggine e farsa. I Flaming Lips sono la band di culto in cui tutti vorrebbero suonare, un’anima che anno dopo anno rafforza il suo mito con scelte inusuali, sempre libere e per questo talvolta impopolari (ricordiamo l’inorridire di alcuni fan più integralisti alla loro collaborazione con Miley Cyrus).
La serata proposta domenica 1 settembre a “Prato è Spettacolo 2019” è quindi imperdibile, non solo per la presenza dei Flaming Lips, guidati dall’istrionico e carismatico Wayne Conye e tornati in Italia dopo le date milanesi del 2017 e 2018 e l’uscita di King’s Mouth, favola naif con la preziosa collaborazione di Mick Jones (The Clash) – ma anche per l’esibizione degli Eels. Gli Eels, o sarebbe meglio dire Eels, E. o Mark Oliver Everett, unico superstite della formazione originale, presentano al pubblico una delle ennesime nuove incarnazioni della band che hanno permesso al progetto di rimanere attivo e interessante dopo 11 album e a 23 anni dal meraviglio esordio Beautiful Freak: “I’m old as fuck, but fuck if I don’t rock”, cantava.
La ristretta e suggestiva cornice di Piazza del Duomo, con alla sinistra del palco la Cattedrale di Santo Stefano con il celebre pulpito di Michelozzo e Donatello, prende vita alle 20 circa e sin dall’ingresso con la fiammante cover di Out in The Streets degli Who, splendida apripista di My Generation, si capisce che gli Eels non saranno certo gli sparring partner della serata, con il senno di poi verrebbe da dire che son stati molto più apprezzati dalla parte di pubblico digiuno a entrambe le band. Gli Eels del 2019 sul palco non assomigliano per niente a ciò che ci si può aspettare dopo essersi innamorati dei drammatici Beautiful Freak ed Electro-Shock Blues, quanto piuttosto a un entusiasmante quartetto rock su cui spicca, oltre alla carismatica figura di Mark Oliver Everett, l’incredibile chitarra di Jeff ‘The Chet’ Lyster.
Gli Eels stanno sul palco con sapienza e la giusta ironia, creando un eccellente rapporto con il pubblico e non mancando di emozionare nei momenti più toccanti come I like the way this is going e le classiche My Beloved Monster e Novocaine for the Soul. Pur lasciando a casa tutti i brani del capolavoro Electro-Shock Blues, non rimane neanche l’ombra di un rammarico dopo ventuno pezzi e una inaspettata e splendida chiusura con la cover di The End dei Beatles, con E. (Everett) già lontano dal palco.
Parlando di relazione con il pubblico partiamo subito dalle (poche) cose negative del concerto degli immensi Flaming Lips: se c’è qualcosa che è sembrato terribilmente off durante l’esibizione è stata la poca armonia creatasi fra una parte del pubblico e Wayne Conye, nonostante le solite trovate teatrali dei Lips durante i loro show: un cavallo semovente che trasporta il cantante in mezzo al pubblico, l’esplosione continua di coriandoli e palloncini, sempre Coyne che si fa infilare in un pallone gonfiabile per poi lanciarsi sul pubblico; c’è la sensazione che non tutti colgano lo spirito dello show, come d’altra parte sembra che i Flaming Lips cerchino troppo l’approvazione di un pubblico a momenti freddino, più che andare avanti convinti del loro splendido spettacolo. A dire il vero Wayne ringrazia la gente di Prato, commentando le persone che la mattina si fermavano a osservare, applaudire, anche prima di entrare in chiesa durante il loro soundcheck, ma il fatto che ripeta tre volte durante lo show la stessa frase, lascia forse intendere una velata polemica sulla mancata riuscita del soundcheck che spiegherebbe più di qualche problema di sound e di scenografia.
Ciononostante, questa situazione di straniamento, come se da un momento all’altro tutto potesse andar male, ha reso tutto lo spettacolo ancora più unico, creando uno stato di alienazione perfettamente adattabile alla lente-deformante che è la psichedelia dei Flaming Lips. Il set è un po’ un piccolo greatest hits: l’inizio è pirotecnico con Also Sprach Zarathustra op.30, di Strauss – per capirci l’iconica musica di 2001: Odissea nello Spazio –, seguita da Race for the Prize, brano più rappresentativo del capolavoro pop sinfonico The Soft Bulletin, e ancora Yoshimi Battles the Pink Robots, sghemba ballata del celebrato album omonimo. Il concerto prosegue con palloncini in volo e le trovate di cui sopra, più effetti strobo sul palco e arcobaleni, mentre si alternano i grandi classici della band tra cui She Don’t Use Jelly, The Yeah Yeah Yeah Song, Fight Test e le belle cover di True Love Will Find You in The End e Somewhere Over The Rainbow, prima che Do you Realize? come da rito chiuda lo show. Alla fine, a prevalere è una bellezza straniante, incompleta, che rende comunque unica la serata di Prato, anche se probabilmente non lo è stata per tutti.