Guardando i Lemon Twigs suonare viene da chiedersi da quale bizzarra congiuntura astrale, improbabile varco spazio-temporale o occasionale momento di distrazione dell’irregimentato e algoritmico mainstream pop contemporaneo possano essere sbucate delle anomalie come i fratelli D’Addario. Perché oggettivamente è difficile spiegarselo.
Due ragazzi le cui età sommate restano inferiori a quella di molti tra il pubblico (peraltro infiltrato anche da una una buona componente giovane, evento ormai raro ovunque ci siano delle chitarre su un palco), che in una gelida sera decembrina del gelido 2024 scaldano i cuori dei presenti all’Estragon di Bologna e mandano tutti a casa felici con una cover di I Can Hear the Grass Grow dei Move (anno santo 1967) e a seguire il glammone vintage 1973 di Rock On.
Due figli d’arte – il padre Ronnie D’Addario ci aveva provato ai suoi tempi, senza troppa fortuna, con un power pop/easy listening di discreta fattura – cresciuti in una dimensione parallela nella quale al posto dei Pokemon c’erano gli spartiti di Pet Sounds e invece di perdere tempo alla Playstation ci si esercitava sui dischi dei Big Star, dei Raspberries o degli Zombies.
Eppure guarda come sono venuti su bene, sti ragazzi. Dei freak, certo, con i loro caschetti lunghi, le Rickenbacker e i bassi Hofner come quello di Paul McCartney in una foto a scelta del ’64, i saltelli-con-pennata alla chitarra alla Pete Townshend e le cremose armonie vocali che sussurrano all’orecchio California dreamin’ in ogni momento anche se i kids sono di Long Island, all’altro capo (geografico e meteorologico) degli States. Nella data bolognese – unica in Italia, e seconda o terza in assoluto della loro carriera nel nostro paese, quando in posti come Spagna o Francia sono praticamente di casa e riempiono qualunque club in cui suonano, facciamoci delle domande anche su questo, evitando accuratamente di darci delle risposte – hanno dimostrato in un’ora e venti di concerto che saper scrivere canzoni memorabili, saper suonare e saper stare su un palco sono la miglior risposta. Insieme a un sorriso di compatimento e una pacca sulla spalla, per mandar a quel paese i poveri di spirito che cianciano di “retromania”.
Ma quale retromania. Questo si chiama talento: è un’altra cosa. Certo, i riferimenti sono tutti lì sul piatto, chiari e distinti. Il jingle jangle dei Byrds in almeno due terzi dei pezzi – quanti possiedono il gene di Gene (perdonateci l’orrido pun), Clark la sognante If You and I Are Not Wise, o la citata My Golden Years? – così come il sunshine pop misto folk rock alla Mamas & Papas (l’organo su Peppermint Roses e i cambi melodici di Church Bells sono pistole fumanti). O i Turtles (il singalong How Can I Love Her More potrebbe essere la Eleonor di questi anni, se questi fossero altri anni), gli Wings (A Dream Is All I Know), Todd Rundgren (demone interiore che affiora soprattutto nei barocchismi di I Wanna Prove to You, canzone che stava sull’esordio Do Hollywood e rarissimo reperto d’epoca in una scaletta in larghissima parte incentrata sugli ultimi due album). E… ok, sì, anche i primi Queen (idem).
Diamo ovviamente per scontati gli inevitabili Beatles e Beach Boys (dei quali viene ripresa You’re So Good to Me). O i Bee Gees, evocati sia in versione ’60s che disco nella stessa canzone (Any Time of Day). Si potrebbe continuare con l’elenco delle influenze, dei rimandi e delle citazioni, ma non è questo il punto. Non è uno spettacolo in maschera, quello dei Lemon Twigs. E i quattro (da citare oltre ai D’Addario bros anche il bassista/tastierista Danny Ayala e il batterista/occasionalmente chitarrista Reza Matin, due personaggioni che sembrano appena stati scartati al casting di Saranno famosi) non sono cosplayer di un’epoca dorata (golden years, appunto) che nessuno dei presenti ha vissuto, figuriamoci loro.
Quelle influenze sono semplicemente la grammatica e la sintassi con cui questi Under 30 stanno scrivendo da quasi dieci anni il loro romanzo. Che ha tutta la dignità della narrativa contemporanea. Sono hyperpop pure loro, ma in senso letterale, non in quello tecno-fighetto odierno. Proprio qui sta la deliziosa inspiegabilità dei Lemon Twigs. Com’è possibile che un tipo con una chitarra acustica e un maglioncino rosa con Minnie e Topolino stampati sopra (Bian, nel suo breve ma intenso intermezzo in solitaria: voce e fingerpicking immacolati, manco a dirlo) e un altro che fa le facce di Keith Moon (Michael, che in un rimescolio di ruoli tipo Olanda del ’74 – tanto per non smentirsi con il vintage – finisce in un paio di pezzi alla batteria) possano risultare così credibili, così attuali, così…necessari.
Raramente, al termine di un concerto, si raccoglie la stessa entusiastica unanimità di giudizio come è accaduto in questa serata di dicembre all’Estragon. In fondo, sono davvero un piccolo miracolo. Teniamoceli stretti, questi ragazzi. Con i loro “la-la-la” e “do-do-do-do-do”, le loro armonizzazioni di disumana perfezione, i loro capelli lunghi, le loro chitarre, la loro energia rock’n’roll e la loro beata gioventù. Perché i golden years in un batter d’occhio volano via, e anche se questa è una illusione vogliamo che duri il più a lungo possibile.
Come cantano in My Golden Years: «In these my golden years, how can I try and push down my fears/’cause in the blink of an eye I’ll watch these golden years fly by».