Fare musica da stadio è un discorso diverso. Nel caso delle popstar tentate dall’azzardo di “fare gli stadi” – e sono parecchi di recente: Ultimo e Blanco, Mengoni e perfino Gazzelle – è questione di “apparato”. C’è lo show, la sua ideazione, gli indispensabili potenti mezzi e le soluzioni musicali, fin quando sale il cantante e deve dare la sua migliore interpretazione della ciliegina sulla torta. Per una band la questione è diversa: se la devono cavare più da soli, il gioco è quello, il palco è sterminato, incombe l’abbraccio circolare delle tribune e un carico di aspettative da riempire con ciò che si sa fare – mestiere alla portata di grandi istrioni, da Dave Grohl a Chris Martin, perché la partita la devi portare a casa interamente con le tue forze.
E così, in una notte di luglio nella Roma canicolare, tra ola e nuvole d’acqua vaporizzata, all’Olimpico sono scesi in campo i Måneskin. «Lo Stadio Olimpico… porca troia!», sono le prime parole che Damiano urla nel microfono, liberando il sogno. Loro qui, nello stadio, è un pezzo che ci vogliono davvero stare, «un’ossessione» la definisce il frontman. Nel 2017 facevano i buskers a Via del Corso e ci hanno messo solo sei anni per arrivarci, dopo essere già transitati per il Circo Massimo, gli Stones a Vegas, Coachella e Glastonbury. Ma questo è il terreno di casa, il posto dove tutto è cominciato. E non è questione di consacrazione, che è stata già ampiamente celebrata, ma di una sfida che in effetti li attende al varco: misurarsi coi supremi parametri dell’arena rock, cosa che puoi fare solo se davvero fai carburare le tue potenzialità nel migliore dei modi. Del resto, se la parte adorante del pubblico – percentuale maggioritaria ma non assoluta – non vedeva l’ora di celebrare l’evento (i Måneskin come araba fenice di un’imprevedibile rigenerazione del rock, in equilibrio tra ironia, remake/remodel e delirio fashionista), folto è il plotone di coloro che sono venuti a vedere se, alla riprova dello stadio inteso come ogiva da accendere con suono e presenza, i quattro favolosi ce l’avrebbero fatta.
Del resto, grazie al superlavoro che hanno espresso, adesso i Måneskin i pezzi ce l’hanno, abbastanza per infarcire una scaletta polifonica come dev’essere quella di un concerto di questa portata, con tutti i suoi bravi momenti liturgici: il delirio dionisiaco, lo struggimento malinconico, l’esibizione eretica e poi su, su, verso l’orchestrato crescendo orgasmico delle hit. Soprattutto la produzione si rivela subito di dimensione “mega”, fin dallo start in cui eccita l’arcobaleno di schermi di migliaia di telefoni cellulari. Fa impressione come, nell’enorme catino dell’Olimpico, i veri Damiano, Vic, Ethan e Thomas appaiano piccolissimi, semi-invisibili e in perenne controluce, perché, in effetti, a fare spettacolo sono i loro alter ego sui megaschermi, fotografati con una maestria monocromatica che sembra ispirata a Bruce Weber.
Ci vuole poco per capire che, tremendamente in fretta, loro abbiano imparato a gestire il tutto, ad esempio l’amplificazione mostruosa che rimanda quel loro suono che dovrebbe appartenere a un garage. O anche a tenere in pugno una folla oceanica come quella di un sold out all’Olimpico, spalleggiati e sostenuti da prepotenti visual di ultima generazione, che ribadiscono il dominio del palco sulla platea. Una produzione a dir poco fiammeggiante (letteralmente: 40 getti incendiari disposti lungo il fronte del palco) e testosteronica, che abbraccia i Måneskin come un bene prezioso e contribuisce a elevarli al livello di una tenzone di questo genere. L’effetto è che tutto ciò li proietta al presente come dei vincenti e rende insulsi i soliti raffronti sospinti dai detrattori, perché in effetti i Led Zeppelin erano mezzo secolo or sono, e loro invece sono adesso, appartengono e provengono proprio da qui.
Questo Loud Kids Tour lo ribadisce e d’altronde non vediamo perché i Red Hot Chili Peppers sì e loro no, dal momento che hanno acquisito la maestria necessaria, in scena lavorano duro e con umiltà, non ostentano predestinazione alla leggenda, ma masticano la scaletta come panzer in marcia. Suonano forte, più forte di prima, e quando fanno casino, al limite del rumorismo, sembrano più ispirati che mai, tant’è vero che il pezzo migliore dello show è una proposizione di In nome del padre che martella elettricità nemmeno fosse Non aprite quella porta. Il pubblico, abbacinato da due ore di esposizione ai led ibizenchi, si mostra appagato, perfino placato dalla certezza che i beniamini hanno lavorato duro per loro, che la serata è credibile, magari non memorabile, ma di sicuro rispettabile. Andranno a casa mezzi ciechi, ma felici: credere nei Måneskin ci sta. E Damiano, con la sua possente vocalità californicata, adesso è una rockstar autentica – perché no?
In conclusione qualcosa va detto sulla strana, generale atmosfera che regna sulla musica live in Italia durante quest’estate del ’23, tra odiosi prezzi stratosferici, cifre gonfiate, un certo numero di flop e una sensazione di volgarità ad avvolgere il tutto, come se la stessa situazione-concerto avesse smarrito la vecchia magia, sprofondando nel tritacarne di un marketing vitaminizzato. Di sicuro, a un set come quello dei Måneskin all’Olimpico (che replicano stasera) si partecipa con meno abbandono che in passato e con uno spirito critico più da consumatori che da appassionati. Tutti fattori che fatalmente s’allontanano dall’idea originale del raduno rock. O invece magari è solo apparenza, e in realtà anche in passato vigeva un gioco degli equivoci tra artisti e pubblico (il gesto creativo e l’estasi partecipativa), che adesso semplicemente ha un sapore inattuale. E che, a meno di non aver voglia d’appollaiarsi nel pit della transenna selvaggia, si assiste al tutto con un animo più contratto, come se gli astri faticassero ad allinearsi.