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I Massive Attack ti sbattono in faccia le domande che non vuoi farti

Nel concerto di ieri sera al Todays Festival di Torino la band e i suoi ospiti (Elizabeth Fraser, Horace Andy, Young Fathers, Shara Nelson) hanno ricontestualizzato le canzoni di sempre per spingerci a riflettere sul nostro ruolo in un mondo che è sempre più un casino
Massive Attack Torino 2024

Foto: Daniele Baldi

Il Todays Festival di Torino, quando salgono sul palco i Massive Attack, diventa una funzione religiosa. In ombra come sempre, hanno alle spalle uno schermo che non smetterà di trasmettere. Tra il pubblico qualche giovane si affaccia (anche io, ma non parliamone), ma non giovanissimi, non giovinastri, Gen Z vera. Qualcuno magari sì, timido e nascosto, ma questo non è un concerto padre-figlio. Apparentemente 3D e Daddy G o li conosci o non son parte di quel revival cool, e per farsi un po’ grandi, che aleggia tra chi un’epoca non l’ha vissuta, ma proprio vorrebbe.

«Impegnativo», si sente dire dopo un’ora e mezza di show, e mica da persone a cui le prese a male non piacciono. Sotto il palco siamo già tutti d’accordo con Robert Del Naja e compagni, con la loro musica che emergeva da anni in cui, se era elettronica anche solo in minima parte, allora doveva portare all’euforia, o perlomeno alla danza. Sul piatto dei Massive Attack questo non c’è mai stato. Chi è qui lo sa: siamo a Torino per pensare, per farci dire ancora che cosa non va di noi. Saremo soddisfatti e ci prenderemo un po’ male. C’è ancora politica nella musica.

Nel caso dei Massive Attack, sia nelle performance dal vivo che nell’attivismo extra-palco dei suoi membri, Del Naja in primis, la musica non può esimersi dall’essere politica. Grant Marshall sale sul palco con una kefiah (se la toglierà presto). Del Naja si presenta con al braccio una fascia con la scritta “Palestine” (la terrà per tutto lo show). Cominciano le immagini, tra artwork e filmati d’archivio. Campeggia una scritta: “Elon Musk / Neuralink Corporation / Experiment 2021”. È l’introduzione del tema conduttore di tutto quello che vedremo scorrere sopra (anzi, dietro) la musica, gioco di associazioni a tempo. Parte In My Mind di Gigi D’Agostino. Hommage, ma c’è di più.

Arrivano le guerre, di ieri ma soprattutto di oggi, quelle che hanno catalizzato l’attenzione collettiva e mediatica. Ucraina, Vladimir Putin, Benjamin Netanyahu che si complimenta con i soldati israeliani. Come un cinema delle attrazioni (e di montaggio), in cui l’accostamento subitaneo di due immagini crea nuovo senso, seguono saloni di bellezza, volti sorridenti, piste danzanti. Che continui lo stile di vita occidentale, mentre il mondo va in auto-combustione.

“Can I know?”, “Do I matter?”, “Can I feel?”, “Am I unique?”, “Do I belong?”, “Can I fear?”, “Who are you?”. L’esecuzione di Risingson, primo brano della scaletta, porta sullo schermo queste domande. Forse non è colpa nostra? Forse ci siamo rimasti in mezzo? Dopo l’accusa, una sorta di sollievo. Come nel testo della canzone: “Why you want to take me to this party and breathe / I’m dying to leave”, perché vuoi portarmi a questa festa e respirare, non vedo l’ora di andarmene.

Il gioco combinatorio sull’identità continua: come a una partita di Indovina chi?, compaiono volti, fototessere con nomi e aggettivi. Cortese, rispettoso, altruista, freddo, diplomatico, chi siamo oggi? Chi ci assegna il nostro essere, perché? Il tempo di trovare una risposta non c’è, ci penseremo dopo. Ora siamo in una fabbrica di bombe dell’Oklahoma e sul palco arriva Elizabeth Fraser sulle note di Black Milk. Sì, ci sarà anche Teardrop. Gli ospiti saranno quattro per la serata: oltre all’ex dei Cocteau Twins, Horace Andy, gli scozzesi Young Fathers e Shara Nelson. Compongono una sorta di memory lane dei Massive Attack.

Il prossimo movimento dello show ci porta dentro l’online: teorie del complotto, hashtag (da #endsuffering a #corporatecoup), e ancora la festa di ciò che eravamo impazza nei filmati d’archivio. Che cosa ci stavamo perdendo mentre festeggiavamo i traguardi del progresso e scendevamo nelle strade per capodanno?

Del Naja chiama uno stop, l’unico che farà in tutto lo show: l’appello è per la Palestina, per Gaza, per un cessate il fuoco immediato. Poi scorrono dei numeri: “densità abitativa per ettaro di Dresda, Germania, quando fu bombardata nel 1945: 18”; “di Baghdad, Iraq, quando fu bombardata nel 2003: 86”; “di Quang Tri, Vietnam, quando fu bombardata nel 1968: 27”; “di Rafah, Palestina, quando è stata bombardata nel 2024: più di 200”. “Palestinesi cacciati dalle loro case dalle milizie sioniste, tra il piano di spartizione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 e la fondazione dello Stato di Israele il 15 maggio 1948: 300.000”. “Acri di zone umide autoctone disboscate da Israele per fare spazio agli insediamenti agricoli sul Mar di Galilea: 25.000”.

Impossibile godersela davvero, distratti così, troppo da immagazzinare. La parola quasi prevale sul suono. Se questi numeri non li sapevamo, se li avevamo dimenticati, ora rimarranno sempre con noi. Un gruppo di persone accorso a sentire uno dei loro gruppi preferiti si trova legato in un modo che non aveva previsto.

È una funzione, dicevamo, e qui sta tutto il senso di quello che stiamo vivendo: andare a un concerto, pagare il biglietto, godersela con un paio di birre, è generalmente associato a un’esperienza edonistica, ennesimo consumo da pianificare nella lista dei nostri buoni propositi di spesa. L’esperienza religiosa, per etimologia (re-ligo, legare insieme), è invece collettiva. Bertolt Brecht l’avrebbe chiamato straniamento: fare un passo indietro da ciò che si sta esperendo, vedersi da fuori. L’esercizio non riesce facile, all’io del capitalismo. Quella dei Massive Attack è ancora una proposta politica: usiamo la musica anche per questo. Non cambiamo le canzoni, cambiamo il discorso che possiamo costruire attorno a esse. Se questo trip hop ci fa davvero sentire mezzi presi a male, mezzi leggeri, usiamolo per prendere questa distanza.

La promessa dell’individualismo era che saremmo stati tutti liberi. Che sarebbe stato tutto nella tua testa. Ma se non ci fosse stato nulla laggiù? Se quello che senti e i tuoi pensieri venissero da qualche altra parte? Sulle parole finali proiettate davanti a noi mi si para una montagna, posso solo citare a memoria. La questione fondamentale pare però chiara: come possiamo essere “io” se prima non siamo “noi”? E come possiamo essere “noi” se continuiamo ad andarci contro, a queste possibilità di comunità, tra guerre, armi e distruzione?

Della questione ambientale i Massive Attack non hanno parlato – anzi, non hanno proiettato – esplicitamente ieri. Il tema è però caro, e il 25 agosto hanno sperimentato nella loro Bristol con un concerto a impatto zero, o insomma, non proprio zero, però quasi. Il saluto, senza bis, avviene sul contrasto tra immagini comunemente associate alla pace buddhista (persone a gambe incrociate, giallo-viola, soli brillanti) e quello che pare uno shopping mall post-apocalittico, resti di quello che siamo stati. Torna In My Mind, poi il silenzio. Sembra un film di George Romero, non bisogna nemmeno sforzarsi di indovinare la fine, se non cambieremo, se non troveremo la cura alla malattia.

Si spengono le luci, la messa è finita, e siamo tutti presi a male. Impegnativissimo. In fondo eravamo lì proprio per questo, e siamo sollevati. Abbiamo ancora chi sa pararci davanti il nostro riflesso impeccabilmente. Peccato solo che la pensassimo già tutti così. Toccherà a noi fare proselitismo.

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